Groundhogs è uno di quei nomi che vengono buoni quando si ha voglia di ascoltare del british (rock) blues duro e puro, senza contaminazioni pop o d'altro genere, suonato in trio chitarra/basso/batteria da gente adusa a calcare i palchi cogli stessi jeans e maglietta infilati al  mattino uscendo dal letto e dal bagno; l'onestà e l'innocenza con la quale simili formazioni si accostano alla musica rende speciale e tonificante l'ascolto delle loro opere.

La figura forte di questo trio è il chitarrista, cantante e compositore londinese Tony McPhee, musicista che prese i voti sin dal 1962, facendosi le ossa accompagnando i bluesmen americani dell'epoca quando venivano in tournée nel Regno Unito, e che ha attualmente qualche problema a proseguire la carriera, visto che nel 2009 un ictus ha piuttosto compromesso le sue capacità vocali e manuali.

Qui su "Split" però siamo ancora nel 1971, Tony è un ventisettenne in piena forma, solo con qualche problema di... stempiatura. L'album è il quarto del gruppo ed uno dei migliori; il leader ce la mette tutta ad estrarre dalla sua bianca Stratocaster quanti più suoni e timbri e tecniche esecutive possibili, tali da diversificare il blues di base ed espanderlo in territori psichedelici, effettistici, rumoristici, mediante l'uso intensivo della leva del tremolo ed del pedale wah wah in particolare. Le idee buone per i riff ci sono, la sezione ritmica formata dai due immigrati dell'est Peter Cruikshank al basso e Ken Pustelnik alla batteria è indaffarata e solida, specie per quanto riguarda il batterista che suona molto in stile Jimi Hendrix Experience, ispirato cioè da Mitch Mitchell. La voce di Tony infine è grezza ma schietta e comunicativa, grosso modo reminiscente quella di Ian Anderson il leader dei Jethro Tull.

Le prime quattro tracce (ossia la prima facciata dell'originario ellepì) sono costituite dalla canzone che intitola l'opera, divisa in quattro parti. Il legame fra di esse è solo a livello di liriche (Tony vi racconta una sua brutta esperienza dissociativa, un vero e proprio incubo vissuto personalmente in sogno), trattandosi in effetti di quattro rock blues songs ben differenti fra di loro. Mi intrigano soprattutto la "Part II", molto dinamica col mellifuo arpeggio condito di wah wah e la successiva, distorta esplosione per lanciare le strofe, nonché la "Part III" caratterizzata invece da una rigogliosa melodia di canto sopra un arpeggio discendente, che poi si alterna ad un duro e primordiale riffone blues.

La seconda parte dell'opera si apre con il singolo "Cherry Red", non privo di sana apertura melodica e da quel momento in poi irrinunciabile numero ai loro concerti, per poi procedere con la quasi lugubre "A Year In The Life" che alterna momenti lenti a cupe accelerazioni strumentali.

Ancor più dinamica, anzi decisamente di scuola progressive la seguente "Junkman" che si allunga in un solo di chitarra finale di scuola rumoristica, con McPhee impegnato a smollare le corde della chitarra fino all'impossibile tramite la leva del tremolo, per poi estraniare ancor più il suono tramite il pedale wah wah. Very psychedelic!

L'album si chiude alla grande con un numero di blues ancestrale che prende il titolo dal nome del gruppo (Groundhog per la cronaca significa marmotta): quattro stupendi minuti dedicati a John Lee Hooker e forgiati ad immagine e somiglianza del blues del Mississippi, quello inventato da questo signore e dall'altro grande pioniere Robert Johnston. Tony qui è quasi in solitario, sostenuto ritmicamente dalla semplice cassa "in quattro" di Pustelnik, a cantare mezzo parlato ed armeggiare con infinito calore e rispetto sulla Strato, settata con accordatura "aperta" e arricchita da interventi col ditale slide. Che grand'uomo il McPhee! Lunga vita a lui e gloria eterna a questo tipo di musica così vera, così onesta, così nobile.
Carico i commenti...  con calma