Tra i Settanta e gli Ottanta, uno degli eventi di maggiore risonanza in ambito jazzistico è la nascita (e la relativa, istantanea affermazione) di una nuova corrente stilistica destinata a riscuotere grande successo di pubblico negli anni a venire; mi riferisco al genere noto come "Smooth Jazz", forma di Jazz liberamente aperta a stilemi mutuati dal Pop e da certo "easy-listening" più raffinato, e caratterizzato da sonorità dolci, sinuose, levigate, lontane dall'asperità del "Free" e della Fusion più sperimentale; genere riconoscibile, soprattutto, per la spiccata sensibilità melodica palesata dai suoi maggiori interpreti, spesso abituati a flirtare con i canoni più consolidati della "forma-canzone" e a fornire suggestive, piacevoli riletture di classici familiari al grande pubblico; non per nulla, uno dei primi segnali di questo nuovo indirizzo si erano avuti già alla fine dei Sessanta, quando Wes Montgomery si era dilettato in accattivanti riletture di brani già divenuti veri e propri standard, quali "I Saw A Little Prayer" e la beatlesiana "Eleonor Rigby", in assoluto fra le canzoni più "coverizzate" dei Fab Four. "Musica di intrattenimento", o "di sottofondo", disse certa critica a ragione, ma senza esagerare sui pericolosi (e senz'altro negativi) risvolti che un simile giudizio può nascondere: parliamo infatti - almeno per quanto concerne gli strumentisti più affermati del genere - di artisti nel pieno senso della parola, rappresentanti di una poetica propria e non semplici, spassionati interpreti di una musica di routine ad uso e consumo del mercato più ampio. Uno sguardo ai migliori esponenti della "scuola" (che scuola non è, pur nel doveroso riconoscimento di numerosi tratti comuni) confermerà l'opportunità di questa mia sottolineatura: Herp Albert, Chuck Mangione, David Sanborn, Dave Grusin (fondatore, fra l'altro, della prestigiosa GRP Records) e Joe Sample sono anzitutto strumentisti di grande caratura, sia individualmente (ciascuno di essi può vantare un'ottima carriera solista) sia considerando le prestigiose collaborazioni di tutti loro. Viceversa, non sono del tutto d'accordo sull'inclusione in questa categoria di Larry Carlton e degli Spyro Gyra di Jay Beckenstein, che appartengono piuttosto all'universo della Fusion più "canonica", "tout-court".

Fra i migliori e più apprezzati musicisti di "Smooth Jazz" rientra senz'altro il compianto sassofonista Grover Washington jr., autore di pagine che gli appassionati di quelle eleganti sonorità non mancheranno di ricordare con piacere. Originario di Buffalo, il Nostro aveva ereditato la passione per il Jazz (Benny Goodman, soprattutto) dal padre, assiduo collezionista di antichi cimeli discografici del genere, cominciando a suonare il sassofono all'età di otto anni. Trasferitosi a New York City, suo talent-scout era stato Billy Cobham, prima d'intraprendere all'inizio dei Settanta una fortunata carriera costellata di successi e riconoscimenti, oltreché di prove discografiche eccellenti ("Mister Magic", "Feels So Good" e "A Secret Place", in particolare, quest'ultimo con Dave Grusin, il bassista Anthony Jackson e il batterista Harvey Mason). Ma è con "Winelight", nel 1980,  che Washington dà forma al proprio capolavoro, per un disco dalle atmosfere ricercate, intriganti, sottilmente sensuali. Ad affiancarlo è la crema dei session-men del periodo: sezione ritmica affidata a Marcus Miller e Steve Gadd, qua e là - tanto per gradire - qualche soffusa spruzzata di sintetizzatore Oberheim da parte di Ed Walsh, e le percussioni (congas e campanelli vari) di Ralph McDonald a dare un tocco di vibrante etnicità; una nota di merito, inoltre, agli splendidi intarsi di Fender Rhodes creati da Paul Griffin e Richard Tee (uomo di fiducia di Paul Simon e, qualche anno dopo, anche collaboratore di Pino Daniele). Marginale, invece, e poco incisiva è la chitarra di Eric Gale, funzionale piuttosto ad arricchire ulteriormente un sound originale, capace di brillare per freschezza e qualità tecnica della proposta e per le felici intuizioni dei musicisti impegnati. Washington, dal canto suo, si dimostra solista di grande gusto e raffinatezza, oltrechè interprete di una miscela sonora di straordinaria eleganza ed emotività; è una vena tendenzialmente romantica e meditativa, la sua, a suo agio tra fraseggi discreti e vellutati, ma anche incisivi, graffianti quando la concitazione di certi momenti particolarmente serrati lo richiede (vedi la parte centrale di "Let It Flow") . Lontani i rischi di monotonia, "Winelight" sa sedurre fin dal primo ascolto, annoverando una serie di interessanti strumentali (l'unico pezzo cantato è l'arcinota "Just The Two Of Us", affidata alla vocalità "R'n'B" di Bill Withers e numero 2 delle classifiche americane nell'estate 1981) e mantenendosi suggestivo dal primo all'ultimo minuto.

Suggestivo fin dall'esposizione del tema dell'iniziale "title-track", scandita dal basso di Miller e da note di chitarra appena sussurrate, in apparenza semplice Blues di dodici battute, in realtà armonicamente atipico, perché la terza sezione è spostata mezzo tono sopra, a generare nell'ascoltatore una sensazione di volatilità, di irrisolta sospensione. La ritmata "Let It Flow" è invece dedicata, nelle note di copertina, ad un fantomatico "Dr. J", che altri non è che il grande cestista Julius Erving, stella della NBA anni '70/'80 con i Philadelphia 76ers (a conferma della più volte dichiarata passione del sassofonista per il basket); qui il ruolo delle percussioni è decisivo, direi anzi "costitutivo" della stessa materia sonora, sottolineando le linee di basso ed imprimendo al pezzo un'impronta di sfuggente esotismo; la sezione centrale è occupata, oltreché dall'infuocato assolo del leader, da variazioni "slappate" eseguite da Miller sulla scala minore della tonica Re; sulle stesse cadenze si muove la splendida "Take Me There", mentre "In The Name Of Love" presenta toni più smussati, più dolci (e ammalianti). Rimangono la già menzionata "Just The Two Of Us", con un pregevole assolo di Oberheim (qui suonato da Bill Eaton) alla Weather Report e gli intriganti cori femminili ad impreziosire l'atmosfera, e l'altrettanto significativa conclusione di "Make Me A Memory", sontuoso e nostalgico Samba per ulteriori evoluzioni del magico sassofono di Grover.

Grave perdita per il Jazz contemporaneo, nel 1999, la scomparsa del Nostro, stroncato da arresto cardiaco. Ma riscoprire, a trent'anni di distanza, il fascino e la freschezza di questo album (vero e proprio gioiello di classe e stile) è un piacere tutto particolare. Cinque stelle anche per l'importanza storica dell'opera nel panorama "Smooth".  

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