Ebbene si: vi fu un tempo in cui Istanbul era San Francisco, in cui nuove e allucinate sonorità risuonavano sulle rive del Bosforo, in cui strafatti hippies turchi scorrazzavano seminudi su e giù per le strade che sembravano i Dead nei primi giorni di Haight-Ashbury, in cui musicisti in sgargianti abiti "freak" stile Mothers-prima maniera provavano a mettere su disco le irripetibili sensazioni generate dall'ascolto delle "nuove cose" che arrivavano da Occidente. Quelle "nuove cose" si chiamavano psichedelia, Acid Rock, Psych-Blues, ma erano definizioni che allora - e specie in un Paese del tutto digiuno di Rock - avevano ben poco senso, salvo che per i critici; allora contava soprattutto esprimere emozioni, comunicare impressioni, prendere una chitarra e maltrattarla con distorsioni, trucchi sonori quasi "artigianali" frutto di pura, incontrollata ed incontenibile energia creativa. Spontaneità: ecco il termine-chiave per capire a fondo un contesto, quello del primo, pionieristico Rock turco, del quale poco o nulla si conosce "da noi"; noi abituati a guardare all'Inghilterra o agli Stati Uniti, noi ignari dell'esistenza di realtà capaci d'esprimere musica d'alto spessore senza per questo riproporre fedelmente - e spassionatamente - modelli già noti e abusati.

Noi che spesso ci dimentichiamo dell'esistenza, nella Turchia dei primi Settanta ma anche di qualche anno dopo, di un complesso repertorio di formazioni genuinamente "underground" e in grado di produrre sonorità oggi ancora interessanti, tutt'altro che meritevoli d'essere sottovalutate o trascurate. "Anatolian Rock" è l'etichetta consueta, etichetta che dice tutto riguardo all'appartenenza geografica dei nuovi artisti "elettrici" d'Asia Minore, ma dice nulla circa le coordinate stilistiche in cui si sono mosse personalità del calibro di Erkin Koray (come dimenticare il suo storico "Elektronik Turkuler", pietra d'angolo di quella nuova musica, vero "Sgt. Pepper" di Turchia) e Baris Manco, ma anche gruppi come il quasi dimenticato (eppure eccellente) Grup Bunalim, forse l'emblema della cultura musicale prodottasi a Istanbul e dintorni dal contatto con la coeva realtà internazionale: i primi in assoluto a impiegare luci stroboscopiche durante i concerti, a comporre sotto l'effetto dell'LSD, a esporre sul palco - a mo' di variopinta quanto casereccia scenografia - opere di pittori della recente avanguardia turca, ideali corrispettivi visuali della musica aspra e sconcertante della band. Guidato dall'accorta produzione dell'esperto Cem Karaca, altra figura leggendaria di quello stesso, variegato underground, il gruppo arrivò alla pubblicazione di sei 45 giri (la cultura dell'LP non era ancora in voga) prima di sciogliersi, dopo soli tre anni, nel 1972. Ad esperienza ormai conclusa, quei dodici brani totali furono messi assieme nella raccolta che qui vi presento: operazione di stampo commerciale, si potrebbe dire, ma nondimeno unica fonte possibile per conoscere (e apprezzare) la musica di un ensemble così significativo. 

Un "power-trio" secondo la formula consolidata da Experience, Cream o Taste, per intenderci, capitanato dal chitarrista Ayet Aydin (che è anche voce solista), alle prese con un solido e accattivante repertorio affrontato con piglio "garage-punk" ante litteram; una foga esecutiva e una bestiale brutalità che ricordano Troggs, Blue Cheer, Stooges, al limite anche qualcosa dei primissimi Black Sabbath nella predilezione per l'uso di riff secchi e veloci, e lancinanti linee disegnate dalla chitarra all'unisono col basso. I brani più lenti ricordano i Fish, i Mad River, anche qualcosa degli stessi Dead, nella straordinaria fusione di moduli scalari arabeggianti e tonalità minori importate dal Rock californiano (assai significativo, da questo punto di vista, lo strumentale "Bunalim", con l'aggiunta di tastiere all'avanguardia che ricordano certe analoghe soluzioni di "Electric Music For The Mind And Body"; l'impressione è quella di aver a che fare con una moderna rilettura della musica araba medievale). C'è tanto anche, aggiungerei, dell'improvvisazione libera e sperimentale di formazioni "arab-oriented" del Kraut germanico (Agitation Free, in primo luogo). Ascoltando "Yeter Artik Kadin" mi sono scervellato, non disponendo di adeguate fonti, su quale fosse il pezzo rivisitato dai tre nel contesto di una melodia che risuonava molto, troppo familiare: e il pezzo in questione, lo posso affermare con relativa certezza, è "Get Out Of My Life Woman", che alcuni di voi ricorderanno in "Heavy" (esordio degli Iron Butterfly peraltro molto affine, nelle atmosfere, al Grup Bunalim) e in "East-West" della Butterfield Blues Band: ascoltare per credere. Curioso sentire come i tre si disimpegnino sulle dodici battute, con la sicurezza di veterani ormai navigati. Ascoltare  ancora l'alternanza fra Hard e momenti acustici nell'iniziale "Basak Saclim", così come i chiarissimi echi di "Wild Thing" in "Tas Var Kopek Yok", rumoristica cavalcata dominata dalla chitarra (e dalla voce) del leader.

Senza troppo dilungarmi, vi invito a segnarvi il nome di questo gruppo (così come dei Mogollar, altra formazione turca di quegli anni che segnalo agli appassionati di certe contaminazioni Oriente-Occidente). Ne vale sinceramente la pena: pur non essendo l'album in questione un capolavoro, quattro stelle mi sento di assegnarle senza esitazione. Buon ascolto. 

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