Un’opera maledettamente sbilenca e polimorfe la quarta del berlinese Guido Möbius.

Al contempo fuggevolmente Pop, bizzarramente avanguardista, scompostamente elettronica, clangoricamente pre-industriale: strutturalmente dadaista, vagamente situazionista, eppure sorprendentemente fruibile ed attrattiva.

Un artigianale patchwork apertamente indefinito e infinito, una imbrattata tela dal vigore Pollockiano all’interno della quale i rivoli sonori e gli sgocciolii rumoristici parrebbero gettati lì a caso.

E invece.

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