Guillermo Del Toro sembra essersi ormai votato pienamente a un cinema che tende ad indicare con precisione i numi tutelari del suo immaginario. Dopo aver omaggiato in Pacific Rim il kaijū eiga alla Ishirō Honda e i colossali robot dell'animazione giapponese, condendo il tutto in salsa lovecraftiana, con Crimson Peak si rivolge all'esplorazione delle radici più profonde della propria marca d'autore, risalendo ben oltre Lovecraft o Poe per approdare agli albori della moderna letteratura fantastica. I referenti principali del film vanno ricercati infatti nella tradizione protoromantica del romanzo gotico inglese di fine Settecento, quella che da Horace Walpole condusse ad Ann Radcliffe e Matthew Lewis, aprendo la strada all'immaginario cupo e tenebroso di buona parte del Romanticismo maturo.

Crimson Peak può essere considerato da questo punto di vista il film più colto e citazionista del regista messicano. Il modello letterario è ovviamente mediato e filtrato dalla storia del cinema: a detta dello stesso Del Toro, il suo sarebbe un tentativo di riportare in auge il cinema dell'orrore dell'età aurea di Hollywood, quello degli anni 30 e 40. Pur riconducendolo ad una dimensione attuale, il film rispetta minuziosamente tutti i dettami del genere riesumato, optando perfino per soluzioni linguistiche arcaicizzanti, come le dissolvenze tramite mascherini a iride. Ogni fotogramma trasuda erudizione cinefila e amore per il cinema del passato, tra lontani echi e puntuali citazioni (le più evidenti rimandano ad Hitchcock, di cui si citano almeno Rebecca, Vertigo e soprattutto Notorious, ma ritornano anche Bava e la camera 237 di Shining).

L'intento di realizzare un moderno romanzo gotico per lo schermo può dirsi riuscito, nel bene e nel male. Dei romanzi settecenteschi e dei corrispettivi cinematografici Del Toro non si limita a riprodurre la suggestione atmosferica e le tonalità lugubri e tetre cui era affidata la componente orrorifica: a emergere prepotente è infatti un altro elemento, quello sentimental-melodrammatico, che costituiva il secondo pilastro su cui si reggeva la struttura delle narrazioni gotiche. La trama di tali opere mirava al coinvolgimento del fruitore mediante l’esposizione delle sfortunate vicende di povere giovani, vittime innocenti delle brame di fantomatici conti o monaci lussuriosi. I personaggi erano spesso piatti, gli sviluppi artificiosi ed improbabili.

Allo stesso modo in Crimson Peak il piano della scrittura mostra limiti evidenti. L’intreccio si regge interamente sul facile espediente delle percezioni soprannaturali della protagonista, facendo dell’elemento paranormale una mera funzione narrativa; i personaggi subiscono evoluzioni repentine e poco convincenti; i colpi di scena (che si vorrebbero clamorosi) s’intuiscono a meno di un quarto d’ora dall’inizio del film e lo sbrogliamento del mistero precipita il tutto in una sconsolante banalità, levando alla pellicola gran parte del suo fascino. Ma lungi dall’essere una consapevole scelta di recupero filologico, la rozzezza della sceneggiatura (a fronte di dialoghi sostenuti e brillanti, ancora una volta a imitazione del cinema classico) riconferma una mancanza costitutiva del cinema di Del Toro.

Il fatto è che Del Toro non ha mai avuto la pasta del narratore, semmai quella del disegnatore. I suoi film non brillano certo per originalità o per solidità di struttura, quanto per la straordinaria fantasia plasmatrice di mondi e di creature cui dà libero sfogo al limite dell’horror vacui. In Crimson Peak questa visionarietà è imbrigliata e irreggimentata al servizio dei topoi del gotico, ma si esprime nondimeno efficacemente negli accesi contrasti cromatici e nei fulminanti colpi d’occhio offerti da una regia e da una fotografia in stato di grazia. La perfezione formale è ricercata con un puntiglio che sfiora quasi l’eccesso calligrafico e il barocchismo (cui contribuisce anche la sontuosità delle scenografie e dei costumi), la messinscena è assolutamente pittorica nella magistrale gestione dei pieni e dei vuoti, delle luci e delle ombre, delle varie tonalità messe in gioco.

Nonostante manchi di ritmo e mordente, Crimson Peak ammalia e coinvolge dunque per il suo valore puramente estetico: il titolo stesso racchiude in sé i pregi e i difetti di un film che si fonda per intero sulla suggestione simbolica di un’immagine evocativa, quella della neve che si tinge di rosso. Quanto alle scelte di casting, il triangolo teso tra Mia Wasikowska, che prosegue la galleria di infelici donne ottocentesche inaugurata con Jane Eyre e sul punto di ampliarsi con Madame Bovary, Tom Hiddleston, abile nel tratteggiare un personaggio ambiguo e sfaccettato, e Jessica Chastain, che veste i panni hitchcockianamente morbosi ed ossessivi di una novella Fosca (non fosse per la sua bellezza), funziona alla perfezione, infondendo credibilità e carisma alle personalità di protagonisti altrimenti non del tutto riusciti.

7.5

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