"Piuttosto che diventare fascista, meglio essere un maiale"
L'iconica citazione cult di Porco Rosso, tra i film più celebri del maestro Miyazaki, potrebbe sposarsi benissimo a questa nuova e personalissima versione di Pinocchio del nostro Guillermone.
Una propria versione di Pinocchio non si nega a nessuno, evidentemente, visto il proliferare di versioni anche ravvicinatissime tra loro. E d'altra parte, la creatura originale di Carlo Collodi è una delle più celebri e amante nel mondo, tra quelle uscite dalla narrativa italiana. Una storia senza tempo e universale, capace di parlare a chiunque e in tutte le culture.
Il classico Disney ha consegnato la figura del burattino senza fili e dei vari altri personaggi della fiaba collodiana all'immaginario collettivo globale. Seppur in modo ovviamente edulcorato.
Ma Pinocchio è un'icona che trascende le trasposizioni dirette e viene citata nei contesti più differenti. Indimenticabile la scena del capolavoro di Terry Gilliam, La leggenda del Re pescatore, dove un Jeff Bridges ormai alla deriva trova un modellino di Pinocchio per terra, riferendosi a lui come "mio piccolo amico italiano".
Di tre anni fa la versione di Garrone, che personalmente già avevo molto apprezzato, trovandola soddisfacente e quasi "definitiva", una versione molto dark e di grande impatto visivo.
Non commento ancora quella di Zemeckis, che devo recuperare. Ma adesso è il momento di parlare del nuovo film di Guillermo del Toro. Il primo lavoro d'animazione del regista messicano e la prima versione di Pinocchio in stop motion. Un film in stop motion di due ore piene, che se non è un record, per un'opera realizzata con una tecnica così complessa e dispendiosa, poco ci manca.
Il Pinocchio di del Toro è un film spiazzante per chi si attenderebbe l'ennesima versione di una storia, per l'appunto, così famosa e radicata nella cultura popolare. Invece del Toro sceglie giustamente di mettere in scena un film perfettamente coerente con la sua intera storia autoriale, con le sue tematiche anche, e soprattutto, politiche. Tematiche che hanno caratterizzato tutta la sua carriera.
del Toro compie così un percorso personale, in cui Pinocchio diventa il pretesto per una nuova, radicale critica del fascismo, della guerra e degli orrori prodotti dall'uomo. Unendosi così al sopracitato Miyazaki e proseguendo nel solco già tracciato dal Labirinto del Fauno, senza dimenticare il nazismo esoterico e di ritorno di Hellboy. Quest'ultimo accomunato a Pinocchio anche dal ritratto di una figura paterna protettiva e tenera, in quel caso interpretata dal grandissimo John Hurt.
E proprio riguardo al fascismo, questo Pinocchio, da ieri disponibile su Netflix, restituisce bene il senso della tragica farsa che fu il ventennio, anche se ovviamente semplificando al massimo come d'altronde è inevitabile, ma dopotutto quel che conta all'interno del film emerge con forza così come negli altri lavori sopracitati in cui del Toro ha parlato della sua avversione verso la cultura fascista in tutte le sue forme e derivazioni.
del Toro realizza anche il suo personale omaggio all'Italia, attraverso una sorta di road movie, nel momento in cui Pinocchio gira per gli spettacoli itineranti del Conte Volpe (ovvero Mangiafuoco, doppiato da Christoph Waltz, villain nato). Da Alessandria a Catania, toccando città e piccoli paesi come quello di partenza.
Dopo Luca e Porco Rosso, un altro film d'animazione che omaggia in qualche modo il nostro paese, la sua umanità e cultura e le sue complessità e contraddizioni.
Questo Pinocchio mantiene la struttura fondamentale della storia che tutti conosciamo negli eventi di base, ma elimina dei personaggi come il Gatto e la Volpe, alcuni ne modifica, altri ne sono aggiunti e creati dal nulla, prende direzioni totalmente diverse rispetto alla fiaba originale in molti momenti, sposta appunto il contesto temporale nell'epoca mussoliniana (con l'inizio durante la Prima guerra mondiale), aggiungendo inoltre un antefatto struggente su Geppetto e la sua storia personale, omaggiando così Collodi, nella figura del figlio perduto Carlo. E, con Miyazaki, condivide anche, oltre all'antifascismo, la visione di una spiritualità naturalistica ed eterna, che richiama molto gli spiriti del Bosco di Mononoke.
E porta tutto questo a termine in un finale meraviglioso e, anche in questo caso, personale e coraggioso, decidendo di non trasformare Pinocchio in bambino. Bensì, scegliendo di fare accettare al piccolo eroe la sua natura di burattino di legno fino alla fine, seppur infine mortale. E qui c'è tutta la poetica di del Toro sui freaks e sull'accettazione di se stessi.
Visivamente straordinario (ma del Toro non delude mai in questo senso), con grande passione e fantasia in alcune trovate, come nel caso del naso di Pinocchio, che quando si allunga per le bugie diventa un lungo ramo germogliante. Dolcissimo nei momenti musicali, con canzoni tutte bellissime e toccanti.
Forse non aggiunge moltissimo - o comunque aggiunge relativamente poco - alla filmografia di del Toro, ma aggiunge molto alla storia delle trasposizioni di Pinocchio al cinema e, infine e più di tutto, resta una grande riflessione sulla caducità, sul valore del tempo e degli affetti. Il che non sarà originale... ma non è mai nemmeno banale.
Un film di del Toro è sempre un'esperienza che vale la pena di vivere.
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