Ci sono due tipi di monicker che generalmente hanno su di me lo stesso effetto che ha il Vape sulle zanzare, quelli troppo truculenti o quelli troppo strani; quando ho preso in mano questo disco ero più che scettico, forse più per una questione di assonanza che per altro, e mi aspettavo una robaccia simile a quanto fatto dai già recensiti Mithras. Ma come dicono i saggi gufi, l’abito non fa il monaco (in questo caso il nome non fa il gruppo idiota), questo disco merita parecchio. Le presentazioni innanzi tutto: anche se nessuno di voi si starà chiedendo chi si celi dietro questo assurdo nomignolo, ci tengo a dirvi che si tratta di quattro francesi che suonano da prima del 1995, anno di uscita del loro primo full lenght, e che hanno all’attivo una miriade di Ep pressoché irreperibili. Naturalmente prima di trovare una label che non fallisse nel giro di due settimane ci han messo un po’ di tempo e i primi risultati accettabili iniziano a vedersi (anzi udirsi) dopo il 2000, vale a dire poco prima del contratto con la Morbid Records. Ed ecco che un anno più tardi sfornano questo “A Life Of Suffering”, nettamente più maturo dei lavori precedenti.

Le band che hanno contribuito alla formazione dello stile di questi ragazzi sono molteplici, principalmente appartenenti alla scena americana dei primi anni novanta; tra gli influssi maggiormente sensibili, impossibile non citare quello degli Immolation, dei quali riprendono il mood desolante e apocalittico, ma anche degli Incantation (per la tendenza ad alternare parti veloci ad altre dalla matrice chiaramente Doom), dei Deicide, dei Malevolent Creation. Anche per quanto riguarda il livello tecnico, il poker transalpino può essere assimilato facilmente ai gruppi sopra elencati: la loro perizia è molto alta anche se non raggiunge le vette raggiunte dalle nuove leve (Disgorge tanto per fare un nome) o da alcuni grandi nomi del passato prossimo (Deeds Of Flesh, Cryptopsy, Gorguts e chi più ne ha più ne metta). La proposta è abbastanza canonica dunque, e sul piano strettamente musicale non riserva grandi sorprese. Il drumming è potente e preciso ma, eccezion fatta per i numerosi “stop and go”, tutto sommato lineare e desunto quasi interamente dal glorioso passato del Death Metal statunitense. Quasi la stessa cosa si può dire per le partiture di chitarra, proporzionalmente più difficili da eseguire di quelle della batteria; i riff si inseguono più o meno velocemente, costantemente in equilibrio tra la carica più spietata e una incredibile potenza. Pochi gli assoli, molti invece i passaggi distruttivi anche se non tutti azzeccatissimi e talvolta ripetuti troppe volte all’interno di una stessa song. Poco anche lo spazio riservato al basso che nonostante tutto si fa sentire in maniera egregia e rende il suono infinitamente rotondo e “contundente”. A tal proposito è doveroso menzionare la produzione, semplicemente perfetta per un disco del genere, quel tanto retrò da dare al cd quella magia che si avverte ascoltando i primi dischi Death e quel tanto moderna da rendere il suono nitido.

La particolarità dei Gurrkhas non risiede però né nel nome (che a quanto ho capito è quello di un corpo scelto della seconda guerra mondiale), né nella tecnica né nel songwriting: il loro sound e il loro mood però hanno pochi eguali e riescono al meglio ad esprimere quel senso di morte e di angosciante odio che volenti o nolenti tutti avvertono essere proprio del mondo e dell’uomo. E questo, cari messeri, è il Death Metal come dovrebbe essere, non un circo di idiozie da film Horror, ma un modo per dare voce a questo male atomizzato sulla pelle, nell’aria, nella mente. Ogni rallentamento è un colpo di maglio che cristallizza nel vuoto lo sguardo, che fa stringere silenziosamente i denti, che rende partecipi di quelle grida brumose che escono dalle gole del cantante e del bassista.

Il titolo del disco la dice lunga sul suo contenuto; “A Life Of Suffering” è l’esternazione di un sentimento terribile, il sentimento di astio nei confronti della vita.

Pochi gruppi riescono o sono riusciti ad esprimere tanto, tra questi di sicuro i primi Skinless, gli Immolation, i Suffocation di “Effigy Of The Forgotten” e i semisconosciuti Demigod; chi non ha paura delle ripercussioni emotive di “una vita di sofferenza” si faccia avanti.

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