Gerry e Gerry partono per una escursione. Smarriscono il sentiero. Si perdono nel deserto. Questa è la trama di "Gerry", nono lungometraggio di Gus Van Sant, cineasta del Kentucky.

Dopo due film hollywoodiani come "Will Hunting" e "Finding Forrester", Van Sant torna in una fase di sperimentalismo, ricollegandosi agli esordi di carriera ("Mala Noche", 1985). Sarà l'incipit della cosidetta "trilogia della morte", dove l'elemento della fine dell'esistenza accomunerà anche i successivi due film.

Siamo di fronte all'opera probabilmente più intima, sperimentale ed espressionista di Van Sant. Impossibile giudicare una pellicola del genere utilizzando le classiche coordinate: plot, sceneggiatura, ritmo, livello di coinvolgimento. Azzerare tutto e pensare il cinema come mezzo espressivo attraverso cui ricostruire la realtà. Lo fa ispirandosi ad un regista europeo come Béla Tarr, ungherese, che a detta dello stesso Van Sant è stato uno dei maggiori autori a cui ha guardato per la svolta "sperimentale" 2002-2007.

"Gerry" è un trionfo di montaggio all'interno delle inquadrature, quindi di piani sequenza in cui Van Sant segue passo passo i due protagonisti nelle interminabili traversate in una natura ostile, il "vuoto" dell'America post 11 settembre. Ritmi dilatati, sound naturalistico e minimale. Lunghe sequenze dove non succede assolutamente nulla. Queste sono le caratteristiche tecniche di un film in cui Van Sant adotta una regia perfetta quanto "invisibile". Ma è soprattutto una pellicola disseminata di simbolismi: ricordiamo che gli Stati Uniti erano appena stati scossi da un attentato di un "nemico esterno" e la caduta delle Twin Towers è stato uno degli avvenimenti che più di tutti ha influenzato il cinema americano negli ultimi dieci anni. Non è un caso che i due protagonisti (interpretati da Casey Affleck e Matt Damon) abbiano lo stesso nome, a rappresentare la perdita di identità di una nazione. Ma allo stesso tempo sono anche rappresentazioni delle stesse "torri gemelle": una prima sequenza li pone di fronte su due alture, così come la beckettiana situazione del masso, con Affleck che è costretto a gettarsi, a "crollare" al suolo. Altro chiaro riferimento a quegli avvenimenti: la lunga sequenza in cui la scena è dominata dal primo piano dei due, con i passi che risuonano come una marcia militare, assonanza con la repentina mobilitazione dell'esercito americano che poco dopo l'11 settembre si ritroverà a combattere in Afghanistan (e in questo caso parallelismo con "Le armonie di Werckmeister" di Tarr, 2000). Un ulteriore richiamo è percepibile nella storia della dea Demetra evocata da Affleck, che spazza via la sua Tebe, forse in un'allusione ad un videogioco, ma la cosa, come tante altre, non sarà mai spiegata. Di nuovo torna però la caduta di una civiltà, e non è un caso che ad essere distrutti saranno "due santuari". Ancora una volta, riferimento chiarissimo.

Un'opera che ha un'autorialità spiccata, che non pretende di spiegare ciò che viene messo in scena, ma che lascia allo spettatore la possibilità di costruirsi la sua realtà. Anche in questo senso ci sarebbe da chiedersi se i due Gerry non siano in realtà la stessa persona e se in questo senso il finale non abbia una spiegazione più razionale...

"Gerry" è un film che necessita pazienza, che è al di fuori dei normali schemi di un "film canonico". Predominano i silenzi (sceneggiatura scritta a sei mani da Van Sant e i due attori), piani sequenza interminabili, inquadrature circolari. Si avverte una prolissità in alcuni passaggi nella seconda parte della pellicola. Ma siamo di fronte ad un'opera che merita assolutamente di essere vista. E naturalmente in Italia non è mai arrivata, né nelle sale, né per l'home video.

"Quando mi attaccarono comandai al mio esercito di difendere la città, ma per fare questo servono dodici cavalli al traino. Ma ce n'erano solo undici, mi mancava un cavallo..."


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