È un manuale di psicologia l’infanzia del giovane genio Will (Matt Damon): orfano adottato e un patrigno violento.

I suoi amici più cari sono i libri: chimica, psicologia etc. Ma è soprattutto la matematica a consolare il suo cuore ferito. La matematica – bestia nera per tanti, sposa amata per tanti altri – con il suo misterioso e inscindibile binomio di bellezza e verità, è il gancio nel cielo che permette a Will di fuggire dal mondo reale con la sua complessa e inestricabile rete di compromessi, delusioni e opinioni che costituiscono le relazioni umane.

Will fa l’inserviente all’MIT (la scuola tecnica più importante del mondo). Lì risolve un problema lasciato aperto dal professor Gerald Lambeau (Stellan Skarsgård), vincitore della Medaglia Fields, il premio Nobel per la matematica. Lambeau ci mette poco a capire che Will è una perla nera. Il ragazzo è interiormente devastato ma, per qualche arcano motivo, la sua anima ferita ritrova la sua unità e sicurezza quando ha a che fare con la matematica.

Gerald lo porta dagli psicologi per ricostituirlo. Ma Will ha letto tutti i libri di psicologia ed è lui a psicanalizzare gli psicoanalisti.
Allora decide di portarlo da un suo caro amico, Sean McGuire (Robin Williams), che accetta di aiutarlo. Il primo incontro non è dei migliori. Will lo ha già inquadrato e sa bene come ferirlo. Invece di psicanalizzare lui, psicanalizza il quadro della sua defunta moglie: “Si sbatteva un altro”. Will vuole vedere la reazione dello psicologo, vuole subito fargli vedere chi dei due ha il coltello dalla parte del manico. Ma Sean non è uno dei quegli psicologi che nasconde i suoi tormenti dietro le buone maniere; non gliene importa nulla di apparire debole e fragile. Prende Will per il collo e gli dice: “Se manchi un’altra volta di rispetto a mia moglie, io ti finisco. Ti finisco, cazzo”.  
Anche il secondo non va molto meglio: è il gioco del silenzio.
Poi un terzo incontro davanti ad uno splendido lago. Sean psicanalizza Will con veracità ma senza senso di superiorità: “Sei un genio, chi lo nega questo. Ma dietro la tua aria arrogante, si nasconde un bulletto che si caga addosso dalla paura”. Poi lo stesso Sean si mette a nudo raccontando come sua moglie, col suo amore, lo tolse letteralmente dall’inferno interiore in cui era precipitato.
Chi ammette la sua fragilità, suscita sempre empatia. Will è toccato. Sean non è uno che finge, e non vuole apparire meglio di quel che è. Anche lui ha avuto bisogno di salvezza. Ci si può fidare. All’incontro  successivo si comincia a parlare di baseball – lo sport è sempre uno straordinario modo per fare amicizia –  e via via fino a cose più serie.

Con i progressi in università e con la psicologia, arriva anche l’amore. Will conosce Skylar (Minnie Driver), una brillante e graziosa ragazza di Harvard che si innamora della bellezza interiore del piccolo genio e gli chiede di andare a vivere in California con lui. Davanti a questa richiesta, le paure di Will riaffiorano: e se conoscendomi, scoprissi che io non sono come sembro e smettessi di piacerti? Sono le paure di chi usa troppo la testa e troppo poco il cuore e che si è chiuso a tutto a causa dei dolori passati. Will è intellettualmente un gigante, ma emozionalmente un bambino spaventato. Skylar le dice di smetterla di pensare e lasciarsi andare: “Facciamo un tentativo”. Ma in matematica non si azzarda. C’è solo il vero e il falso; al massimo la congettura. Will non può rischiare. È finita.

Ma l’autodistruttività non finisce qui. Un  giorno Will brucia la pagina della dimostrazione di un teorema che il professor Lambeau non sa dimostrare. Mentre cerca di spegnere il fuoco, il luminare cerca di far capire a Will cosa gli ha dato la natura: “E’ vero, Will, non so fare questa prova. E non so che darei per avere il tuo talento. Che dolore vederti mentre lo getti via”.
Will rifiuta anche un lavoro in un importante centro scientifico. È destinato a fare cose meravigliose, ma lui usa il suo genio solo per inventare geniali scuse. Sean non si fa abbindolare dalle sciocchezze e glielo fa notare. Will ribatte:

“Non volevo quel posto. Non l’ho mai chiesto”
“Ci sei nato Will. Quindi non dire sciocchezze come “Non l’ho mai chiesto”. Cosa vuoi fare, Will?”
“Voglio fare il pastore. Pascolare le pecore….”;
“Se vuoi farti una sega, prendi un asciugamano bagnato”;
“Mi manda via. Pensavo fossimo amici”;
“Mi fai solo perdere tempo”;
“Lei da a me lezioni sulla vita. Ma si guardi, cazzo, lei è uno spostato”;
“Io, almeno una mano l’ho giocata”.


Will la sua mano non vuole giocarla nell’amore perché, a suo tempo, è stato abbandonato e adesso ha paura di essere abbandonato di nuovo; e non vuole giocarla nel lavoro perché ha anche paura del fallimento, pensando che le cose belle sia necessariamente destinate a finire. È il ricordo del suo passato a impedirgli di liberarsi. Will capisce i più profondi teoremi che i luminari non riescono a capire e non capisce la cosa più semplice: che se noi lo vogliamo la vita può essere bellissima.
Il suo amico Chuckie (Ben Affleck) fa il muratore ma non c’è bisogno di lauree per dire la verità: “Tu sei seduto su un biglietto della lotteria ma sei troppo smidollato per incassarlo. Ed è una stronzata”.
Un amico è un amico. Will accetta il posto e va a fare pace con Sean che, nel frattempo, ha stilato un rapporto psicologico su di lui: deficit affettivi che provocano grandi paure del futuro.
Tra i due nasce un dialogo memorabile in cui ognuno dei due rivela all’altro le violenze subite.  Poi Sean rivela a Will – che di libri di psicologia ne ha letti molti e che pensa di sapere tutto – qualcosa che lui non sa:

“Will, tutta questa merda non è colpa tua”;
“Lo so”;
“No. Non lo sai. Non è colpa tua”;
“Lo so”;
“No. Non lo sai. Figliolo: non è colpa tua”;
“Lo so”;
“No. Non lo sai. Ripeti: non è colpa tua”.


Ognuno di noi è artefice del proprio destino e le nostre colpe sono solo nostre, e non possiamo scaricarle sugli altri per sentirne meno il peso. Il patrigno snaturato che lo ha allevato ha trasmesso a Will il suo senso di colpa che il cuore sensibilissimo di Will – il genio non è altro che una sensibilità superiore che a noi normali non è concessa – non ha avuto la forza di respingere al mittente. Se la gente sapesse respingere, con un profondo atto di volontà, i sensi di colpa che i veri colpevoli ci inviano continuamente, metà degli psicologi sarebbe disoccupata.

Will piange. Le lacrime hanno medicato la sua ferita interiore che finalmente si è chiusa. Will smetterà di autopunirsi per quello che ha subito in passato. La colpa non è sua. Le verità banali sono talvolta le più difficili e faticose da capire. Capire questo vale più di tutte le Medaglie Fields e di tutti i premi Nobel.  Allora il nostro eroe, tra la sicura gloria scientifica che lo attende nelle università di tutto il mondo e l’imprevedibile amore che lo attende in California, compirà il primo azzardo della sua vita.

Un film da (ri)scoprire e (ri)vedere. Un film che potrebbe essere più utile di tante costose ore passate dallo psicologo.

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