Un sottile e singolare filo del destino lega tra loro due dei capolavori sinfonici novecenteschi più eseguiti e amati dai pubblici di tutto il mondo: la splendida suite “I Pianeti” di Gustav Holst e la ancor più celebre cantata scenica “Carmina Burana” di Carl Orff: sia Holst sia Orff, pur ottimi didatti (Holst lo fu addirittura di lettere, in un liceo), coltivarono la composizione come una professione “a latere” dell’attività didattica, avvalendosi di ottime tecniche compositive individuali, ma senza riuscire a trovare il riscontro che la loro arte avrebbe meritato. Per entrambi, tale meritata fama arrivò quando riuscirono a coniugare all’arte dei suoni le proprie passioni culturali: Holst l’astronomia, Orff l’amore per l’antichità e la storia.
Nacquero così i due capolavori, che donano ancor oggi a entrambi imperitura e meritata fama: nel 1917 (iniziata nel ‘14) “The Planets”, nel 1936 “Carmina Burana”.
Singolare anche il fatto che la suite di Holst risulti il brano inglese più eseguito al mondo, eccezion fatta proprio per l’Italia, dove, per inspiegabili ragioni, è ancora oggi eseguito relativamente poco, pur risultando brano di incredibile impatto sonoro e coloristico, suggestivo, spettacolare e orchestrato in maniera geniale tramite una gigantesca massa strumentale.
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“The Planets” è concepito secondo criteri di razionalità quasi implacabili: dal “vicino” Marte, via via allontanandosi dalla Terra fino all’ineffabile Nettuno, ancor oggi avvolto dal mistero della lontananza. I pianeti sono sette (Plutone era ancora sconosciuto e la Terra rimane esclusa), come le sette ere dell’esistenza umana: dalla nascita, attraverso l’adolescenza, la maturità, la senilità, fino alla morte (probabilmente rappresentata dal lento e implacabile dissolversi di ogni suono strumentale e vocale al termine della Suite, fino al raggiungimento del Silenzio, cioè del Nulla).
Molti altri criteri rispettano una struttura improntata alla simmetria: uno per tutti, la metrica in 5/4 che apre la Suite con la terrificante marcia guerresca di Marte, per chiuderla con lo stesso ritmo in 5, ovviamente rallentato, dopo quasi un’ora nell’ipnosi di Nettuno, vera e propria “musica dell’infinito”.
MARS, the bringer of War
Concepito con inquietante preveggenza nel 1914, alla vigilia dell’esplosione della Grande Guerra, Marte apre “The Planets” in maniera brutale e selvaggia: il pianeta delle eterne guerre è rappresentato, con un linguaggio definito dalla critica “una delle musiche più cattive mai create”, da un’implacabile marcia in 5/4, un “ostinato” tambureggiante e ossessivo sul quale si levano, minacciosi e brutalmente possenti, effetti di esplosioni, eserciti in minaccioso avvicinamento, visioni futuristiche di carrarmati. Un urlo disperato chiude questo barbaro inizio, in un’atmosfera distruttiva e sconvolgente. E’ evidente l’influsso di questo brano sulle odierne colonne sonore delle pellicole di fantascienza!
VENUS, the bringer of Peace
Da contraltare alla violenza fonica e ritmica dell’odio di Marte, i suoni cristallini, puri e tersi dell’immobile ed etereo Venere, là dove tutto brilla di riflessi tenui e delicati. L’orchestrazione abbonda di effetti trasparenti di arpe, celeste e glockenspiel, sull’incedere lento e sereno di “passi verso l’infinito”, iridescenti, affascinanti e morbidamente intrisi d’amore.
MERCURY, the winged messenger
Personaggio controverso, spesso dipinto dalla doppia e ambigua personalità, il “postino degli Dei” è in realtà qui una velocissima, leggerissima e ineffabile libellula, sfuggente e la cui ambiguità è genialmente rappresentata dal continuo alternarsi delle tonalità di Sib magg. e Mi magg., sempre in doppiogiochista lotta tra esse. Nessuna delle due atmosfere ha il sopravvento fino all’ultima riga, dove il mi magg. prende silenziosamente e astutamente il comando per l’accordo di chiusura. Da notare anche l’imitazione onomatopeica dei ritmi del telegrafo, rappresentanti scherzosamente il senso della “comunicazione” di segnali da parte del Postino.
JUPITER, the bringer of Jollity
Giove, fonte di allegria smisurata, godereccia, spassosa, luculliana, sorgente di suoni trionfali, ma anche giocosi, danzanti, vertiginosi, potenti.
Un grandioso impatto sonoro con la gioia, la gioia divina del Padre degli Dei, che rivela la sua maestà nell’imponente e famoso passaggio centrale, un vero e proprio inno di pace e grandezza, trasformato infatti alcuni anni più tardi da Holst in uno dei più celebrati canti della tradizione britannica: “I vow to thee, my Country”, forse il più amato e rispettato dal popolo Inglese dopo l’inno nazionale. Gioia, luce, maestà per quello che rimane forse a tutt’oggi il più celebre dei sette movimenti della Suite.
SATURN, the bringer of Old Age
Holst non nascose la propria predilezione per questo splendido movimento, misterioso, ipnotico e scuro: dopo il fuoco vitale di Giove, il gelo mortale della vecchiaia, lenta, implacabile e pesante di “Saturno l’anziano”, come la fatica di un canuto e saggio viandante che erra verso un infinito incerto e oscuro.
Lenti e spaziali accordi simboleggiano, ossessivi e sempre uguali, “i secondi che ci separano dalla morte”, mentre una misteriosa melodia nasce dalle viscere del pianeta: lentamente i passi si appesantiscono e si ingigantiscono a dismisura, la melodia oscura si illumina, ma si trasforma in un terribile scampanio di campane a morto, in un’atmosfera terrificante e gelida.
Nel buio della desolazione e del terrore, improvvisamente, un accendersi di luci, come stelle improvvise nello spazio circostante: le luci della speranza, l’alba di una vita nuova, simboleggiata dalla tonalità finale pura e limpida di Do maggiore.
URANUS, the Magician
Il pianeta dei vulcani, delle improvvise e devastanti esplosioni, degli oscuri e minacciosi misteri, è rappresentato come un mago, creatore di creature bizzarre, malefiche e striscianti, tra esplosioni e violenze quasi sismiche. Tutto si impernia su quattro suoni, esposti all’inizio e ricorrenti infinite volte, come un incubo: il simbolo del male, del demoniaco, del distruttivo, dell’occultismo. Indubbia l’ispirazione di Holst alle cavernose danzanti atmosfere della celeberrima “Apprendista Stregone” di Dukas, che riecheggia inequivocabilmente tra le righe di Urano.
NEPTUNE, the Mystic
La chiusura di “The Planets” è il mistero, l’infinito, il buio, l’ipnosi, lo spazio senza confini o limiti. Siamo di fronte a quello che forse è il capolavoro: nel 1917 armonie di una tale vastità, spazialità, freddezza fanno davvero pensare alla “musica del futuro”. Un’indefinita lontanissima sacrale processione si dissolve in un oceano di suoni imprendibili, liquidi, indefiniti, brividi gelidi che si intersecano l’uno nell’altro come scie di infinite comete, che a loro volta si perdono nell’oscurità di uno spazio nero e infinito. Si leva la magia di un coro invisibile, che allarga a dismisura il senso di spazialità e che chiude in lenta, inesorabile, dissolvenza verso il vuoto, il nulla, il silenzio …
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