"E l'inquietudine mi cresce dentro come un cancro. . . ".
Prepotente, il verso di Ivan Graziani si fa strada ogni volta che mi capita di pensare a Gustav Mahler che compone la sua travolgente, intensissima Sesta. Lontani anni luce musicalmente, il valido rocker abruzzese e il grande compositore boemo hanno avuto in comune l'ingrato destino di morire a cinquant'anni, e anche una specie di torbida rassegnazione al destino avverso, ovviamente espressa in forma molto più profonda e articolata da Gustav Mahler. Quale forza poteva tormentare in maniera così tenace e diabolica l'animo di un uomo che tra il 1904 e il 1905 stava finalmente concedendosi serene e meritate vacanze, immerso nel paesaggio incantato delle montagne della Carinzia in compagnia della sua famiglia?
La maledetta inquietudine, quella che non abbandona mai chi se la porta dentro, dovunque cerchi di fuggire. E in più anche una sorta di folle ma lucida preveggenza che spesso, nelle persone più sensibili, si accompagna all'ansia, alimentandola a sua volta con visioni spaventose, terribili "flash" del proprio futuro. Tutto questo si ritrova nella Sesta Sinfonia in la minore, detta anche "Tragica", aggettivo che si adatta più che altro all'enigmatico e profetico ultimo movimento, perché è in questo che le visioni più fosche prendono corpo, trasformandosi in grande musica. Il resto della sinfonia meriterebbe piuttosto l'appellativo di "Agitata", compreso il sublime "Andante", dal carattere solo apparentemente sereno e bucolico. La frenesia domina tirannicamente il primo movimento, "Allegro energico, ma non troppo", uno di quei pezzi musicali che sembrano fatti apposta per smentire lo sciocco luogo comune che la musica classica serve per rilassarsi. Qui c'è ritmo, e che ritmo ! Una marcia in 4/4, implacabile e ottusa come una moderna "techno", ma a differenza di quest'ultima, ricca di sfumature melodiche, di toni prevalentemente cupi e sinistri. Non una marcia funebre come quella della Quinta, ma una decisa, perentoria marcia dell'uomo verso il proprio destino, qualunque esso sia. Timpani e percussioni solo a tratti smettono di macinare, per lasciare spazio ad un bellissimo tema cantabile degli archi, che per l'occasione sembrano tirati per i capelli, in uno sforzo supremo. Non è esagerato dire che la fine di questo movimento ci sorprende con il fiatone, ma non illudiamoci che il successivo "Scherzo. Wuchtig" ci possa regalare un po' di respiro. Qui il parallelo con la Quinta è più evidente: anche a questo "scherzo" non stonerebbe troppo una definizione tipo "Agitato tempestoso, con grande veemenza". Il ritmo è più disuguale, ma quasi altrettanto furibondo, e le pause di riflessione, nelle quali risuonano spettrali brandelli di valzer, subito troncati dal ghigno satanico ora dei fiati ora degli archi, non servono certo a riacquistare la serenità che ormai l'ascoltatore ha perso da un pezzo.
Quando parte lo struggente "Andante" per qualche minuto si ha l'impressione di trovarsi con Mahler e famiglia sulle dolci montagne austrache, in un clima finalmente sereno e pastorale, dove il Glockenspiel fa il verso ai campanacci delle mucche e i corni parlano il linguaggio delle verdi valli alpine. Ma dura poco: gradualmente il tema si evolve fino a mostrare l'altra faccia della medaglia: una disperata sensazione che tutto quello che stiamo osservando è precario e che stiamo per lasciarlo per sempre, tanto che alla fine l'Andante si è già trasformato nel pianto forte e disperato dell'intera orchestra, con gli archi che strillano inconsolabili, e l'ascoltatore che ormai singhiozza senza ritegno, già maturo per affrontare il colossale ultimo movimento, "Finale: Allegro moderato". Mai come in questo caso la parola "Allegro" si rivela soltanto un modo di dire tipico della musica classica, che serve a distinguere un brano mosso da uno lento. L'allegria è altrove, su un altro pianeta. Nei suoi quasi 28 minuti questo tormentato finale ci mostra una continua battaglia dell'uomo (di Mahler stesso) contro i colpi assestati dal destino, che con realismo agghiacciante corrispondono ai colpi di martello dei due falsi finali e di quello vero, definitivo. Dai primi due ci si riprende, dopo essere affondati nel suono liquido di due arpe, rimettendo la testa fuori e ricominciando a ricucire pazientemente la nostra corazza contro il fato, che puntualmente alla fine la schianterà. Dall'ultimo colpo non ci si può riprendere, perché rappresenta la morte.
E qui sono nate le congetture sul valore paranormale di questa Sinfonia, in cui secondo alcuni Mahler avrebbe previsto con qualche anno di anticipo i colpi più duri che la sorte gli avrebbe riservato: prima la scoperta della malattia cardiaca che avrebbe condizionato i suoi ultimi anni, poi la morte della figlia maggiore, e infine (il fatidico terzo colpo) la morte. Tali superstizioni influirono anche sullo stesso Mahler, che dopo qualche anno tentò inutilmente di placare la tremenda ansia che gli procurava l'ascolto di questo movimento cancellando il colpo finale, poi reinserito da molti dei direttori che si sono cimentati con questo monumento all'inquietudine. Tra questi spicca Sir Georg Solti, che con la sua Chicago Symphony Orchestra ha proposto quella che ritengo la migliore interpretazione mai sentita di questa Sinfonia, ma sono notevoli anche le numerose versioni di Claudio Abbado, con varie orchestre. Limpida, secca e relativamente concisa, la Sesta del direttore ungherese naturalizzato inglese (donde il Sir) ha tra l'altro il vantaggio pratico di stare in un unico CD, il che non sempre è possibile, dato che la durata della Sinfonia oscilla intorno agli 80 minuti. D'altronde il povero Mahler, per quanto un po' preveggente, come poteva immaginare che 75 anni dopo qualcuno avrebbe inventato il CD?
Carico i commenti... con calma