Trasformazione e Catarsi. Caducità terrena e sublimazione divina. Morte e Resurrezione. La sintesi artistica di queste dicotomie trova il suo esito altissimo nella monumentale sinfonia n. 2 in do minore di Gustav Mahler, significativamente battezzata, appunto, “Resurrezione”. Lo sviluppo di questo tema epico-salvifico, che rappresenterà il filo conduttore e insieme la chiave di volta delle successive sinfonie mahleriane, viene qui condotto all’insegna della grandiosità colossale, sia in termini di risorse musicali (assieme all’orchestra in pieno organico agiscono coro, soprano, contralto e organo), sia per quanto concerne la densità emotiva e le soluzioni stilistiche ed estetiche, miscelate in un composto di squassante potenza. Rispetto alla prima sinfonia, “Il Titano”, l’evoluzione nell’ordito compositivo e nell’ambizione programmatica è immediatamente avvertibile: questo Mahler, neanche trentenne, è già padrone di un linguaggio spaventosamente maturo e complesso, tale da risultare addirittura spiazzante per i critici coevi (circostanza che tenderà sempre più a cronicizzarsi nel tempo). Non così per il pubblico che, fin dalla première diretta dallo stesso Mahler il 13 dicembre 1895 e poi con la magnifica lettura di Bruno Walter, fu conquistato dalla forza espressiva e dalla granitica integrità della composizione.
La genesi di questo lavoro scaturisce, così come per la prima sinfonia, dalla stesura di un poema sinfonico in un solo movimento, intitolato “Totenfeier” (“Rito funebre”), che Mahler stesso intendeva come il funerale del Titano. Il “Totenfeier”, infatti, era già completo nel 1888, quindi prima della stesura definitiva della sinfonia n. 1, circostanza da cui discende la forte connessione di materiale melodico e motivico tra le due composizioni. Il poema sinfonico venne poi accantonato fino a che, nel 1891, Mahler ne propose l’ascolto al celebre direttore Hans von Bulow, suonandolo al piano; con suo disappunto von Bulow, pur essendo stato alfiere e promotore della “musica del futuro” di Wagner, lo trovò “fastidiosamente moderno”. Passarono così altri due anni e nel 1893, probabilmente, Mahler si convinse ad espandere il “Totenfeier” in sinfonia, integrando il poema sinfonico come primo immaginario movimento. Compose quindi l’Andante e, quasi contemporaneamente, iniziò a riorganizzare uno dei Lieder della sua collezione “Das Knaben Wunderhorn”, intitolato “Des Antonius von Padua Fischpredigt”, trasformandolo in uno scherzo orchestrale. In seguito, avendo completato l’orchestrazione di un altro Lieder della raccolta “Wunderhorn”, denominato “Urlicht”, decise di integrarlo come quarto movimento (l’ordine di questi tre movimenti centrali fu comunque controverso, anzi ad un certo punto pare che lo Scherzo fosse diventato il secondo e l’Andante il quarto movimento). Rimaneva, a questo punto, il problema di trovare un finale sufficientemente potente da bilanciare il già massiccio corpo della sinfonia. L’ispirazione arrivò il giorno del funerale di von Bulow, il 29 marzo 1894, durante il quale venne eseguito un corale ricavato sui versi del poema sacro di Klopstock “La Resurrezione” (“Die Auferstehung”): l’esecuzione impressionò Mahler al punto tale da vincere le legittime perplessità in ordine all’introduzione di un coro, circostanza che lo avrebbe esposto ad uno scomodissimo confronto con il paradigma della Nona beethoveniana. Sarebbe stato, quindi, questo materiale, sviluppato e cesellato, a fornire la solenne e coerente chiusura della mastodontica sinfonia. Pochi mesi dopo, il 24 luglio 1894, finalmente, Mahler fu in grado di annunciare il completamento della sua seconda sinfonia.
La magnifica grandezza della sinfonia n. 2 in do minore (tonalità beethoveniana per eccellenza) si palesa fin dal primo movimento, Allegro maestoso: su un modello iperdilatato di forma sonata si stagliano minacciose le tenebre oscure della marcia funebre per il Titano, dapprima in ritmo puntato e poi a terzine, con un tema ascendente esposto dagli archi nella regione grave (destinato a ricomparire con piglio sempre più violento e ossessivo), successivamente ripreso da oboi e corno inglese, prima, e da tutta l’orchestra, poi. Questo episodio nero, ora mortalmente macabro, ora grottescamente tronfio, ora isterico e virulento è fronteggiato da un secondo soggetto luminosamente lirico, solenne come un inno e delicato come una preghiera: il contrasto, netto e aspro, esalta fino al parossismo le due differenti sezioni tematiche, che si alternano non in maniera statica, ma rinnovandosi, sviluppandosi, trasformandosi secondo un processo continuo di autogenerazione. Lo scarto dicotomico di cui dicevamo all’inizio è già tutto racchiuso qui, in questo primo movimento, che così testimonia la sua originaria unità e completezza, come una sinfonia nella sinfonia. A seguire, l’Andante moderato in la bemolle maggiore, strutturato come una danza, incorpora e alterna il tema melodicamente popolare di un Landler, con due nervose sezioni in trio: ne esce un passaggio fortemente evocativo, che richiama momenti lieti nella vita dell’eroe defunto, ma anche il malinconico ricordo della giovinezza e della perdita dell’innocenza. Su tutto l’opprimente peso della Morte, tangibile nei due trio, getta ancora un’ombra sinistra anche su questo episodio dolceamaro. Non sfuggirà, inoltre, l’omaggio che Mahler rivolge al Maestro di Bonn, riproponendo, un po’ camuffato, il tema dello Scherzo della Nona: non si tratta di mero citazionismo, ma di trasfigurazione, manipolazione, ri-composizione fino al raggiungimento di un risultato diverso, autonomo ed originale. Con il successivo Scherzo, poi, l’umore cambia nuovamente. La serenità un po’ mesta dell’Andante cede il passo ad un soffocante senso di alienazione e di smarrimento della fede: il materiale motivico del Lieder “Des Antonius von Padua Fischpredigt”, esposto, ornamentato, trasformato, poi interrotto e infine combinato con un tema differente, lancia un sardonico e disgustato sguardo sulla vita e sull’uomo, contemplandone futilità e insensatezze, fino ad esplodere in un pianto di disperazione, cupo e appestato. Questo movimento conquistò Brahms e ispirò il terzo movimento della “Sinfonia” di Berio, del 1968. Ma è già il momento di “Urlicht” (“Luce originaria”): in questo quarto movimento risiede il punto focale, musicale e programmatico, dell’intera sinfonia. Un inno, profondo, commovente, affidato al sidereo timbro del contralto, spalanca le porte di una spiritualità intensa, che piega le ginocchia.
“Son venuto da Dio e voglio ritornare a Dio! Dio mi ha dato la luce che illuminerà il mio cammino fino alla vita eterna!”
Pur nella sua brevità, questo canto prezioso riesce a sciogliere la disperazione, la mestizia che ha sinora pervaso la composizione, prefigurando la vittoria della Vita sulla Morte che si celebrerà nell’ultimo, imponente movimento, con il quale Mahler dipinge il suo mastodontico Giudizio Universale. Questo movimento finale inizia con l’esplosiva ricapitolazione del pianto disperato dello scherzo, cui segue la riproposizione di materiale tratto dagli altri movimenti, culminante in un tremendo “Dies Irae”; poi una veloce sezione di sviluppo, in Allegro energico, ci propone una grottesca marcia funebre, la processione dei morti, che sfocia ancora una volta nel pianto di disperazione. Infine, misterioso e inatteso, irrompe un coro a cappella nel momento della ricapitolazione finale, ad accompagnare il soprano nell’enunciazione del messaggio salvifico della Resurrezione. E così, fino all’atteso, liberatorio e sontuoso passaggio alla tonalità di mi bemolle maggiore: un impatto sonoro ed emotivo lancinante, come morire e rinascere a nuova vita, come sentire Dio tendere una mano dai cieli, fin giù in questo mondo infelice e storto, e chiamarti all’incontro con l’eternità.
“Risorgerai, sì, tu risorgerai, mia polvere, dopo breve riposo. Vita immortale ti darà Colui che ti ha chiamato”.
L’intensità cresce, cresce fino a toccare punte quasi insostenibili, nelle riprese del contralto solo, del coro con le due soliste, delle soliste in duetto, fino al trionfale, maestoso fugato libero del coro, per dire del quale non trovo parole migliori di quelle che Mahler stesso utilizzò a proposito della Sinfonia dei Mille:
“Immagina l’universo che comincia a cantare e a risuonare. Non sono più voci umane, è una danza di pianeti e di soli”.
L’esecuzione che vi sottopongo è una recentissima e prelibata uscita (Maggio 2006) della DG, con Pierre Boulez alla testa dei Wiener Philarmoniker e del coro Wiener Singverein, e con Christine Schafer e Michelle DeYoung come soliste. E’ una lettura affascinante, senza alcun compromesso, che espunge ogni orpello esecutivo “romantico” per privilegiare ed enfatizzare, quasi in maniera brutale, le sensazioni di pura gioia e di mero terrore delle visioni mahleriane. A proposito di letture anticonformistiche, Vi rimando comunque anche all’integrale di Sinopoli (cofanetto DG, 15 cd), strabiliante per aderenza al più genuino spirito mahleriano.
Carico i commenti... con calma