"Later", dopo, più tardi.  Mai come questa volta, il vecchio adagio "Better later than never", ascoltando questo disco, c'è sembrato così esplicativo. Un lavoro che è la summa degli ascolti di una vita, un'opera prima che mette a nudo, da un lato, il retaggio culturale/musicale del sig. Guy Littell (alias Gaetano di Sarno); dall'altro, ci regala un corpus di storie in musica di ampio respiro e spessore, restituendo l'immagine, più che mai matura, di questo giovane cantautore o songwriter (se nella vostra musica, come nella mia, prevalgono le penne anglofone) di origini napoletane. Si fa una certa fatica a parlare di scene musicali nostrane. Eppure i talenti non mancano, e il sostrato urbano di certe periferie, rappresenta  un brodo primordiale, dal quale è facile che emergano personaggi con storie da raccontare, formati da suoni vicini e come nel caso del nostro Guy, affascinati da sonorità d'oltreoceano. Il suo, però, non è un lavoro da "sognando la California".

"Later" è piuttosto un'autobiografia musicale e al contempo, una dichiarazione d'intenti per il futuro. Un lavoro all'insegna del più totale "DIY", è un intento chiaro: dimostrare come nell'era della comunicazione di massa, il basso profilo costituisca la base per una comunicazione più sincera, che ha come tramite la musica. Attenzione però, la resa dei pezzi è gli arrangiamenti elaborati rendono "Later" un disco fortemente stratificato (un lavoro di produzione di ottimo livello) e con un potenziale "mainstream", riconoscibilissimo in pezzi come "Needed that call".  Un futuro single?? Trascinante cavalcata elettrica, che gira attorno ad un ritornello semplice e quanto mai accattivante. Ma del resto "mainstream", "indie", "lo-fi" sono termini buoni solo per  il marketing d'azienda. Quello che conta è l'ascolto!

Il disco ci prende fin dalle prime note.  "One-two-three", recitato da una voce che sembra annunciare la partenza di un razzo, da invece il LA alla musica, "Tired of Tellin", una chitarra acustica e un semplice fraseggio di piano a fare da cornice alla voce profonda di Guy. Il pezzo sfocia in un finale epico, e non diremo un'eresia dicendo che ci ricorda certi stilemi post - rock texani. "Within" e "The Nightmare Came", sono  ballate elettro - acustiche che sembrano uscite da lavori tanto di  Steve Wynn, quanto dell'ultimo Eddie Vedder.

Accenni di elettronica introducono l'ariosa elettricità di "Kill the winter". "Black Water" rende omaggio ai lavori di Mark Lanegan, con quell'incedere "slow", la voce profonda ed evocativa, sottolineata dal lamento di una chitarra elettrica, che ricorda tanto quella di Peter Buck dei REM. "Small American Town" con il suo incedere glorioso - epico ed un ritornello che resta impresso. Una dichiarazione d'amore per quegl'immensi bacini di meravigliosi perdenti, che erano le provincie americane a cavallo tra gli anni 80 e gli anni 90; e perché no, ci piace pensarlo, un tributo ai " losers" nostrani delle periferie urbane. Del resto in una di queste, Guy sta muovendo ancora i suoi primi passi.

"A Gifted Summer" si lascia ascoltare innocua, senza lasciare un segno indelebile. Lo schema acustico - elettrico si ripete nella potente "What a War for my Soul", dimostrazione di come l'album sia stato pensato e costruito come un monolite, senza cambi di registro o variazioni, tipiche di chi non ha le idee ben chiare. "Best thing ever" chiude egregiamente un'ottima opera prima, lasciando immaginare Guy intraprendere un sentiero radioso.  A questo punto, potremmo lanciarci in disquisizioni sulle sonorità, sulle citazioni assai presenti nell'album, su Dylan, Young, Lanegan, Buckley, E. Smith e chi più ne ha, più ne metta. La verità è che nulla di tutto ciò, potrà distoglierci dal fatto che  la provincia napoletana ha sfornato un vero talento!  Signori e Signore.......ecco a voi Guy Littell!

Carico i commenti...  con calma