Guy Ritchie e la letteratura cavalleresca possono sembrare un’accoppiata strampalata. Non sono un particolare estimatore del regista, la storia di re Artù sembra abbastanza logora per il cinema (ricordate il King Arthur di Fuqua? No? Meglio!), in giro si parla di sicuro flop. Insomma, le premesse non erano confortanti. Invece Ritchie mi ha fatto ricredere e conquistato un pezzo per volta lungo le due intense ore di film. Un lavoro solidissimo, che non ha nulla da invidiare ai grandi successi cinecomic di questi anni, se non appunto lo scenario. Ed è quello che probabilmente imporrà una scarsa popolarità alla pellicola. Ma lavori come questo dovrebbero essere d’esempio per chi vuole fare kolossal senza rinunciare alla propria personalità registica, ma anche per chi vuole cimentarsi nuovamente con l’epica, tanto di moda 15 anni fa, mantenendo però un piglio fresco, frizzante, senza per questo rinunciare alle potenzialità del registro alto ed enfatico.
Il King Arthur di Ritchie funziona perché non è solo apparentemente stradaiolo. Lo è davvero, fino alla fine o quasi. Il percorso dell’eroe segue vie tortuose, che lo portano a fare di tutto, senza grossi discrimini morali. Egli stesso è cresciuto in un bordello di Londra, taglieggiando e rubando qua e là, facendo leva sulla sua forza e non tanto sulla sua bontà d’animo. Questo percorso non si arresta improvvisamente di fronte alla scoperta delle sue origini, prosegue e devia lentamente. L’esitazione del protagonista non è retorica e vuota, ma ben argomentata da una fitta rete di ricordi, rimozioni, paure e insegnamenti nuovi: «Non distogliere lo sguardo». I suoi passi in avanti seguono in parallelo un percorso a ritroso, alla scoperta dei fatti che hanno segnato la sua vita.
Un film introspettivo e noioso? Tutt’altro. Lo stile vivace quasi fino al parossismo del cineasta vive qui alcuni dei suoi episodi più felici. Ci sono ottime trovate, come quella di alternare nel montaggio il momento della discussione preliminare e quello dell’azione vera e propria (o dell’ipotesi della stessa). Ma sono diversi i giochi estetizzanti: il percorso di crescita del protagonista è mostrato con un sommario che non svilisce le esperienze, anzi ne mostra le asprezze e l’impeto di chi le affronta. Con musiche tonanti che amplificano ulteriormente l’impatto. Ci sono alcuni trucchi tipici, come la ricostruzione a rompicapo di fatti pregressi, oppure l’uso estensivo dell’ironia e di un linguaggio decisamente informale.
Un grosso pregio riguarda il protagonista: come detto, il suo approccio da strada non è fallace. Viene mantenuto coerentemente fino alla fine, tanto da raffigurarlo come un capobranco di una banda di lestofanti, e non tanto come l’erede al trono designato. La sua ironia è scorretta, tagliente, e forse per questo non adatta a un pubblico assuefatto alle attenzioni materne della Disney. Artù è uno stronzo vero e proprio, uno sbruffone. Per questo forse stonano alcune morbidezze degli ultimi minuti.
Sul versante opposto abbiamo lo zio Vortigern, interpretato da un magnifico Jude Law: un nemico davvero coi fiocchi, perché profondamente shakespeariano, crudele ma pusillanime, bramoso di potere ma privo delle qualità necessarie a ottenerlo. La sua forza, il suo potere magico è frutto di sacrifici a un demone abissale, come in una variante del dottor Faust, che vende l’anima e il corpo dei suoi cari per il potere e non tanto per la conoscenza. Insomma, Ciclo arturiano, Shakespeare, Marlowe, un po’ Robin Hood come ho letto: questo King Arthur è un bel coacervo di riferimenti letterari, asserviti a una macchina spettacolare inesausta.
La struttura della narrazione è particolarmente felice, grazie alla progressione in avanti e indietro nei ricordi, che chiariscono poco per volta la questione. Ma è apprezzabile anche per il suo essere frastagliata, ricca di peripezie centrifughe, complicata da scelte arbitrarie, pronta a ripiegarsi su se stessa quando sembrava in dirittura d’arrivo. L’eroe non si sente pronto oppure è spesso fiaccato da ostacoli oggettivi: l’incapacità di usare la spada, la sua paura recondita, oppure l’impossibilità di agire perché sotto ricatto, perché teso a preservare la vita degli amici. Solo alla fine, lo scontro diventa frontale, ma come dice giustamente Vortigern: «Hai già vinto tu. Ora divertiamoci un po’».
Ed è forse nei momenti di massima amplificazione della violenza e delle lotte che il film paga dazio. In modo davvero fastidioso, per una scelta molto strana che impone inquadrature troppo svolazzanti e confusionarie. Questo, unito ad alcuni spunti di cattivo gusto come gli effetti luminosi sulla spada o negli occhi, tarpa un po’ le ali a un lavoro solidissimo.
6.5/10
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