Il talento c'è sempre. A mancare è l'estro degli esordi, probabilmente dissipatosi nel bagno di presunzione cui si è sottoposto Guy Ritchie. La composizione formale bypassa le due precedenti pellicole, andando in realtà decisamente oltre lo standard qualitativo raggiunto con The Snatch: la fotografia in Revolver è superba: piani splendidamente rappresentati con una color correction che satura l'immagine trasudando creatività e astuzia. Il montaggio compone la temporalità attingendo a variazioni dinamiche semplicemente azzeccate, anche se talvolta ridondanti: l'esplicita finzionalità della rappresentazione è ancora  un marchio ben appariscente, modellizzante la cifra artistica di Ritchie (eredità tarantiniana portata alla stilizzazione esasperata già in Lock & Stock). Ancora il cineasta del Tennessee viene citato negli inserti animati, qualitativamente eccelsi: un'idea mutuata che comincia ad innescare il sospetto di una certa carenza creativa celata nel plot.

Le interpretazioni si attestano su livelli dignitosi: Liotta/Macha spicca nel cast, laddove Benjamin e Pastore si ritagliano interpretazioni giocose più che accettabili, minate solo in parte dall'ingrato copione chiamati a recitare nella seconda parte del film. A zoppicare è il feticcio di Ritchie, quel Jason Statham che sembrava tagliato su misura per le interpretazioni un filo grottesche in Lock & Stock e The Snatch, ma che appare evirato e inespressivo in un ruolo che imporrebbe una profondità psicologica a tutti gli effetti assente. Jake Green risulta essere una marionetta priva di corposità e autorità: non dà mai l'idea, neppure nel finale, d'essere deus ex machina della rappresentazione pseudo-onirica che era nelle intenzioni dell'autore.

In definitiva il film c'è, a mancare - lo anticipavo - è l'intreccio. La narrazione omodiegetica sottende già in partenza l'aspirazione al dramma psicanalitico, e gli indizi sono decisamente troppi e troppo palesi, comportando due grandi momenti di sconforto: arrivare alla comprensione dell'idea fondante la fabula già a metà film, e scoprire nel finale che l'intuizione era tristemente esatta. Ciò rappresenterebbe un vizio a livello di "composizione della suspense" - direbbe Chatman - ma la delusione è amplificata in rabbia dalla natura stessa della fabula che si va a intuire e che risulta poi essere davvero quella.

The Snatch raccolse critiche favorevoli che però non esitarono a punzecchiarne la matrice clonativa nei confronti del film precedente. In questo caso Ritchie ha decisamente voltato pagina, ma ha ingenuamente tradito l'essenza stessa del topos tarantiniano (finzionalità esplicita al servizio di una narrazione amorale). Guy ha invece tentato il paradosso, cercando una semiosi impossibile tra una forma del quale è abile artigiano e una significazione ambiziosa quanto cervellotica, che finisce col divenire goffamente pretestuosa.

Occasione mancata.

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