Gli Haken sono la band senza paura di sperimentare per eccellenza, se devono metterci qualcosa di strano dentro ce lo mettono senza farsi troppi problemi lì dove altre band tengono il freno a mano leggermente tirato, e lo fanno senza nemmeno domandarsi se si sta esagerando o meno; e tutto sembra riuscire loro alla perfezione, riescono ad incastonare tutto al meglio. Credo che sia stato questo l’aspetto che li ha fatti emergere fra tanti nell’olimpo prog. Detto questo, potevamo avere dubbi sulla riuscita di una svolta decisamente più heavy? Certo che no!
Eh sì, stavolta gli Haken hanno voluto realizzare un disco decisamente pesante con chitarre affilatissime e ritmi quasi sempre sostenuti e trascinanti. Un disco che di sicuro non faremo molta fatica ad etichettare; da anni facciamo fatica a capire se è più giusto considerare gli Haken una band progressive metal a tutti gli effetti o se forse è meglio considerarla una band di heavy prog, essenzialmente progressive ma con una facile concessione a sonorità pesanti; la band suona con due chitarre a 8 corde piuttosto pompate ma non sempre il metal caratterizza le loro composizioni e non sempre in maniera dominante, non sempre la componente metal è in primo piano, non sono esattamente una band per metallari, diciamolo; il primo album “Aquarius” per la verità non era tendenzialmente metal, il metal era solo come una spugna imbevuta nella tempera che qua e là tingeva i brani tirandoli su di intensità; sarà forse per quello che la bibbia del prog Progarchives li inserisce tuttora nella categoria “heavy prog” (gruppi prog che però si caratterizzano per un approccio più duro rispetto al classico standard prog ma senza arrivare alla potenza del progressive metal); poi però già dal secondo album la componente metal è diventata sicuramente più presente ma rimaneva sempre il dubbio se considerare a tutti gli effetti gli Haken una band progressive metal.
Tuttavia questo quinto lavoro non lascia dubbi, anzi, ci troviamo di fronte ad un disco di prog-metal davvero duro, con riferimenti al djent e alle tendenze estreme; un disco che sicuramente risucchia l’ascoltatore in un vortice metallico come potrebbe fare qualsiasi disco di qualche gruppo metal estremo. Ad accentuare la svolta metallica poi ci pensa anche la scelta di imitare in un certo senso il format di alcuni album storici: se coi precedenti album ci avevano abituati a toccare senza problemi i 60-70 minuti qui invece abbiamo solo 7 tracce per un totale di 44 minuti, una durata che sicuramente fa molto metal anni ’80, va quasi ad imitare l’album metal tradizionale che deve picchiare duro ma non deve farlo per troppo tempo per evitare di fracassare eccessivamente le orecchie dell’ascoltatore.
Ma ecco che quando si tratta di “svolta heavy” inevitabilmente la mente del progmetaller va dritta lì… Lì dove? Ovvio, a “Train of Thought” dei Dream Theater, forse l’esempio più pratico e facile da citare quando si parla di indurimento del sound; impossibile che la mente di molti non sia andata lì, perché in effetti il proposito che vi è dietro sembra essere all’incirca lo stesso, ovvero togliere ogni dubbio sull’”essere o non essere metal band”, ma qui il discorso è diverso; “Train of Thought” esaltava ed estremizzava la componente metal quasi oscurando quella più melodica e progressiva, “Vector” invece presenta la solita creatività folle tipica degli Haken; se “Train of Thought” poteva sembrare un disco pensato per i metallari non si può dire altrettanto per “Vector”; il lavoro tastieristico di Diego Tejeida è infatti geniale, imprevedibile, tagliente e malato come sempre, a differenza di quanto accadeva nel disco del 2003 dove il lavoro di Jordan Rudess appariva un tantino soffocato; un’elettronica pesante, fantasiosa e sinistra si impone facendosi spazio tra le taglienti chitarre senza lasciarsi da esse soffocare; anzi è proprio con dei synth acidi e dall’atmosfera piuttosto horror che si apre il disco, così possiamo descrivere la breve introduttiva “Clear”.
Quindi “Vector” è soltanto una prosecuzione in veste estrema dell’estro compositivo degli Haken. Un disco che trascina e incanta allo stesso tempo. Le strane trovate non mancano affatto, il balzo dalla sedia lo abbiamo fatto tutti ascoltando “The Good Doctor”, con quelle sue strofe pop-funk con slap di basso e inserti di fiati e con l’estrema naturalezza con cui si passa alle staffilate metalliche ed elettroniche. Fighissima anche la lunga sezione elettronica di “Puzzle Box”, marcia e oscura, che si rifà in parte ai Leprous, che concede una pausa prima di partire con potenti raffiche djent. Tuttavia il pieno compimento dell’obiettivo dell’album si ha nella lunga “Veil”: 12 minuti che sono un autentico vortice che trascina l’ascoltatore fra bordate metalliche, pesanti innesti di synth, rullate di batteria, assoli e passaggi trascinanti; un’energia che forse nemmeno la lunga parte lenta riesce a smorzare più di tanto. Un lato tamarro emerge nella strumentale “Nil by Mouth”, dove metal estremo ed elettronica pesante si intrecciano alla perfezione, un improbabile incrocio fra Meshuggah e Chemical Brothers, un brano da pogo e da rave party assieme, anche se forse “The Endless Knot” dal precedente album lo era di più. Punto debole dell’album è forse “A Cell Divides”, con atmosfere e melodie molto Leprous, efficace sì ma non da far gridare al miracolo. Tuttavia un brano che spezza l’energia dell’album c’è, ed è “Host”, soffice soffice con quel suo mood quasi jazz, scandita da inserti di flicorno e tocchi acustici.
La prova metallica degli Haken è superata a pieni voti. Gli Haken si confermano la prog band del decennio e a loro non si può chiedere altro.
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