Tutti ricordiamo la strana coincidenza che interessò l’uscita del “Live Scenes from New York” dei Dream Theater: uscì esattamente l’11 settembre 2001 e aveva in copertina una mela infuocata con le torri gemelle chiaramente visibili, dopo l’attentato le copie già in vendita vennero subito ritirate e l’album ripubblicato con una copertina diversa.

Ed ecco che una coincidenza simile si ripresenta: “Virus”, sesto album degli Haken, era stato concepito insieme a “Vector” già verso la fine del 2017, come naturale seguito di quest’ultimo; chi mai si sarebbe aspettato che un album intitolato “Virus” sarebbe uscito proprio nel bel mezzo di una pandemia mondiale? Ma a differenza del caso Dream Theater stavolta non si è deciso di apportare nessun cambiamento. La Inside Out, scoppiata la pandemia, ha anche contattato la band offrendole la possibilità di cambiare titolo al fine di evitare polemiche, la band tuttavia ha scelto di mantenere il titolo previsto, coerentemente con il progetto già scritto. Per quanto mi riguarda hanno fatto la scelta giusta, sia perché ogni riferimento al Sars-Cov-2 è puramente casuale, sia perché cambiare titolo avrebbe voluto dire non solo andare contro il proprio progetto rendendolo non autentico ma anche chinarsi alla retorica del politicamente corretto che negli ultimi tempi ha raggiunto livelli davvero insopportabili quanto ridicoli.

Avevamo descritto “Vector” come la vera e propria svolta metal di una band che di metal aveva solo un numero limitato di elementi, mantenendone inalterata la pazzia e la genialità. “Virus” invece rende l’anima metal del gruppo addirittura predominante e protagonista sacrificandone però proprio la genialità e l’originalità, viene a mancare proprio l’elemento che probabilmente è stato il punto di forza della band, quello che ha fatto lievitare l’interesse nei suoi confronti. Eh sì, quando state per premere play dovete prepararvi psicologicamente al fatto che non troverete particolari lampi di genio, dovete prepararvi al disco forse meno fuori di testa della band. Il grande sconfitto è senz’altro il tastierista Diego Tejeida, quello che ho più volte esaltato come il nuovo Jordan Rudess o addirittura come “un Jordan Rudess con molto più coraggio di osare” qua invece si fa sentire decisamente poco, è schiacciato di peso dalle frastornanti chitarre, e lo è persino di più di quanto non lo fosse Rudess nel lavoro più metal dei Dream Theater “Train of Thought”; pensavamo che il “Train of Thought” degli Haken fosse definitivamente “Vector” quando invece la band aveva un colpo in canna ben più meritevole di questo appellativo.

Quindi è un disco pesante, il più pesante della band, sempre più imparentato con un certo djent, le 8 corde di Henshall e Griffiths vengono tartassate come non mai. Tuttavia la rinuncia a quella ricerca di soluzioni originali non rende certo il disco poco interessante, semplicemente sposta l’attenzione sulla tecnica anziché sull’inventiva. Se il tastierista perde potere il suo trono da re viene occupato dal batterista, Raymond Hearne offre qui la sua miglior prestazione, il suo drumming è un intreccio di colpi sofisticato ma pulito ed ordinato, mai caotico. Riflettori puntati anche sugli intrecci di chitarra, più che mai intricati e cervellotici, chitarre e batteria creano spesso un reticolato che merita di essere seguito con attenzione e che può mandare in confusione l’ascoltatore meno attento; sembra paradossale ma stavolta gli Haken riescono ad essere difficili senza essere strambi alla loro maniera, richiamano ad un ascolto attento pur suonando in una maniera in un certo senso più tradizionale.

I picchi compositivi, quelli dove potenza e tecnica si sposano meglio, si raggiungono nelle due composizioni più lunghe, i 10 minuti di “Carousel” e i 16 minuti della suite “Messiah Complex” (inspiegabilmente spezzata in diverse tracce audio che prese singolarmente non hanno vita propria, sarebbe ora di piantarla definitivamente con questa pratica), seguite a ruota dalla un po’ più morbida e levigata “The Strain”. Le due tracce iniziali, “Prosthetic” e “Invasion”, sono invece nettamente più votate alla potenza, la prima in particolare è un martello pneumatico in stile Fear Factory che di certo non lascia indifferenti. C’è spazio anche per un brano semplice e melodico, “Canary Yellow”, brano che isolato può sembrare perfino banale ma che all’interno dell’album acquisisce una funzione ben precisa, ne spezza il ritmo incalzante e valorizza la voce melodica di Ross Jennings; il vocalist è sempre stata un po’ la nota stonata di questa band (ho sentito parlare di un “Jon Anderson dei poveri”), una voce poco incisiva, piatta e poco dinamica, a volte pure un tantino fastidiosa ma questo brano è un caso isolato, qui Ross riesce a convincere senza nemmeno fare più di quello che solitamente fa, sembra davvero la voce giusta per il brano, non si riuscirebbe ad immaginarlo con un’altra voce; chissà se in una band prettamente melodica questo cantante funzionerebbe meglio… La brevissima, lenta e conclusiva “Only Stars” presenta alcuni brusii strani che riportano un pochino di creatività tipica della band.

È il disco forse meno spregiudicato e meno coraggioso della band, si fonda su cliché tecnici più o meno affermati e ci gioca in maniera sapiente, probabilmente lo colloco all’ultimo posto della graduatoria ma spacca così quanto basta con la sua incredibile energia. Tuttavia spero che questa non sia la piega definitiva dell’Haken sound e che nei prossimi lavori tornino gli Haken più fantasiosi e in grado di stupire.

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