Non sono in pochi a ritenere che molta musica della seconda metà dei Settanta sia da buttare; una posizione sovente così poco articolata o sviscerata da farmi pensare che i suddetti critici identifichino quegli anni (come è per certi versi inevitabile) più con i fenomeni esplosivi della dance music e del punk che con le nascenti promesse musicali della new wave, della fusion e del nuovo soul. Ma se sulle promesse dei primi due generi, in virtù della loro rilevanza storica, sono stati scritti i proverbiali fiumi di parole, sul terzo ci si trova spesso ad essere confusi da una definizione che suona vagamente anonima.

L’intenditore, o cultore che dir si voglia, sa bene che gran parte di questa stagione soul è di schietta matrice bianca, tanto che all’epoca il genere sarà per l'appunto classificato come “blue eyed soul” : vi rientrano a pieno titolo artisti del calibro di Robert Palmer (esemplare il suo “Double Fun”, 1978), Gino Vannelli (sempre in bilico tra fusion e pop d’autore, come ci suggerisce la celebre “I Just Wanna Stop”, dal capolavoro del 1978 “Brother To Brother”) o ancora certe perle sperdute di nomi poco conosciuti come Jimmy Webb e Michael Franks.

Per non parlare del premiato tandem Hall and Oates, che di questa rivoluzione soul sono il parto più rappresentativo e felice. Nonché longevo: siamo ancora nei primissimi Settanta quando il duo dava alle stampe l’ acerba prima prova, “Whole Oats” (1972), seguita a breve dal primo di una discreta serie di ‘masterpiece’ del philly sound, lo scrigno zeppo di tesori di “Abandoned Launcheonette” (1973). Il successo vero e proprio (“Sara Smile”, dall album omonimo del 1976) e la piena maturità espressiva (“Along The Red Ledge”, guarda caso sempre 1978) sarebbero arrivati un po’ più tardi e durati a lungo, ma la critica e il pubblico già all’epoca non si astennero dall’acclamare i due, a pieno merito, come una delle rivelazioni del decennio e come veri precursori di un nuovo stile.

A quell’altezza temporale e in virtù di tali premesse, tutto sarebbe stato lecito pensare fuorché i due si impelagassero in un sorprendente, e a detta di molti improbabile, sodalizio artistico col vicino di casa Todd Rundgren, novello eroe del prog-glam-rock-pop “home made” (difficile trovare un’etichetta meno sintetica o caotica per l’ arte del menestrello) all’epoca sospeso tra i suoi grandi capolavori “Something/Anything?” e “A Wizard, A True Star”. Per dare vita in quattro e quattr’otto (senza i drammatici esiti psicologici cui il nostro incorrerà nel forgiare il capolavoro degli XTC “Skylarking”, 1986) a quello che qualcuno considera l’unico punto interrogativo nella discografia del duo, che molti noverano (non senza fondate ragioni) come l’anello mancante nella produzione di Todd con i suoi Utopia, che molti altri ancora – ma, a mio avviso, mai abbastanza – salutano come un capolavoro nascosto di assoluto valore innovativo e unicità compositiva, figlio della felicissima unione di istanze creative “così lontane, così vicine” : “War Babies” (1974).

Il tocco del produttore è preponderante in questo strampalato collage di funk, soul, rock urbano dal ‘sound’ decadente, ma la vena compositiva dei due (in particolare di Daryl) non viene mai davvero in secondo piano. È così che nascono gemme inarrivabili come la brillante apertura a firma Oates di “Can’t Stop The Music”, fulgente esempio di philly soul vellutato e sincopato, come lo è (parzialmente elettrificato) quello della superba “Is It A Star”, a cui l’ouverture è legata. Siamo già ai vertici di quello che può essere l’unico immaginabile incontro tra la nuova forma-canzone soul e il meglio dell’eclettismo prog targato Rundgren.
Il produttore ama sbizzarrirsi alla chitarra (nella quale perlopiù sostituisce John) regalando alcuni dei suoi migliori assoli: basterebbe l’eterea e trasognata slide dell’ incredibile “I’ m Watching You” (che varrebbe da sola l’intero disco, con il suo intro di piano ‘soulful’ e un outtro di cori mozzafiato, in cui il falsetto di Daryl sfiora a tratti il sublime) o la leggerezza ritmica nella strana perfezione pop di “You’re Much Too Soon”.

Folli e lancinanti, i passaggi prog à la “Wizard” scardinano piacevolmente ballate dall’ampio respiro che vedono in prima fila la consueta carica emotiva della voce di Daryl (le drammatiche “70’ Scenario” e “Screaming Through December” , quest’ultima letteralmente ‘deturpata’ dagli inserti ritmici di Todd), ma non mancano certo i momenti più ‘catchy’, come il groove di “Better Watch You Back”, il funk sporco, sincopato e ossessivo di “Bennie G. And The Rose Tattoo”, il gioioso incedere melodico della maestosa “War Baby Son Of Zorro”, la singolare chiusura rock di “Johnny Gore And The C Eaters”: un pezzo invero un po’ da “bar band”, ma non tale da sfigurare in un carosello multicolore di trovate genialmente irriverenti e indisponenti che Daryl e John non avranno più necessità di proporre e che Todd, capolavori a parte, difficilmente riuscirà a restituirci in questo stato di grazia.

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