"Abbiamo rischiato la vita per girare il film e se devo dire la verità se tornassi indietro non lo rifarei" Hany Abu-Assad
Aldilà di come la si (politicamente) percepisca sulla annosa, devastante, fratricida, ahinoi attualissima questione Arabo-Israeliana, il quarto lungometraggio firmato dal regista Hany Abu-Assad, nato a Nazareth quarantotto anni or sono ma europeo di adozione - al raggiungimento della maggiore età si trasferì in Olanda - è una di quelle tipiche pellicole cinematografiche che andrebbero (obbligatoriamente) visionate dal più largo numero di individui: oggi più che mai.
Non tanto e non solo per la tangibile capacità del regista di sviscerare in maniera asciutta e sobria i farnetici retroscena e le inaccettabili aberrazioni di questa quotidiana quanto epocale tragedia umana o ancora per la intensità e veridicità degli interpreti principali (gli ottimi Kais Nashef e Ali Suliman) chiamati a calarsi nei panni e nella dura, difficile, convincente interpretazione delle controverse vicissitudini di due giovanissimi condannati a morte "per vocazione".
Presentato nelle sale al termine del 2005, vincitore del Premio Der Blaue Engel quale Miglior Film Europeo al Festival di Berlino, l'opera cerca di descrivere con stile quasi documentaristico l'incredibile ma assolutamente verosimile percorso mentale attraverso il quale due giovani ragazzi palestinesi della Nablus odierna "decidono" di immolarsi alla "giusta causa": le ultime ore prima della (non necessariamente) inevitabile conclusione vengono snocciolate e vissute con occhio quasi asettico, con stile asciutto, diretto, stranamente leggero ancorchè dannatamente drammatico e privo di alcuna facile retorica; Abu-Assad ci spiattella crudamente in faccia la sconcertante, folle realtà di un popolo, composto da persone qualsiasi come i due protagonisti, oppresso da infinite, stratificate e reiterate sconfitte e delusioni sul piano umano e sociale; popoli sottoposti alla subdola malvagità perpetrata non solamente, come sarebbe facile intuire, dalla "controparte" ma dagli stessi fratelli (in sostanza dei fanatici aguzzini) che sfruttano in modo scientificamente aberrante e odioso il credo para-religioso e il mai sòpito rancore covato e generato da tante, troppe, frustrazioni di ogni ordine e grado subite nel corso della tribolata esistenza in quelle terre.
Se dovessimo misurare il valore dell'opera dal tasso di amaro-in-bocca e di inaccettabile rassegnazione fornito a chi scruta forse dovremo necessariamente parlare di capolavoro: un film necessario, ancorchè, alla prova dei fatti, inutile: basti quotidianamente scrutare qualsiasi network per vedere gli effetti della squallida carneficina attualmente in atto.
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