"Hope", punto e basta. Così gli Harem Scarem, storica formazione canadese mai in prima linea nell’hard melodico ’90 / ‘00, ci salutano definitivamente nel 2008, dopo trascorsi iniziati nel 1991 con la seconda sfornata di band dedite al connubio tra fm rock orientato all’adulto e mazzulate heavy. 12 gli album all’attivo. Nonostante tutti questi dischi, i ragazzi dell’Ontario sono sempre rimasti in quel nugolo di gruppi che fanno numero. La summa dei loro lavori conferma questa tendenza tra alti e bassi, e "Hope" racchiude in sintesi una vita comunque dignitosamente dedicata alla musica. 3,5 per la precisione il mio voto all’album.

Disco prodotto dalla verace Frontiers - che con il nuovo millennio sembra aver spostato su Napoli il baricentro dell’hr melodico mondiale - "Hope" presenta melodie a tratti stellari e a tratti un po’ perse per strada. L’assemblato musicale risulta in ogni caso davvero molto buono innanzitutto grazie alla produzione: il suono è muscoloso e corposo, la batteria una piaga per i timpani, le chitarre un monolite che rotola fluidamente nonostante i riff, a volte, rischino di far attorcigliare le sei corde, tanto sono tecnicamente articolati ed, in alcuni casi, superbi. Ciò che abbassa brutalmente il voto di quest’opera è una parte fondamentale dei brani di questo genere di musica, proprio ciò che fa la differenza tra successo e insuccesso: i ritornelli. Alcuni sono meravigliosi, nuovi e ti lasciano incredulo, ma la maggior parte non sono all’altezza di una performance di livello, e rompono la comunque eccellente fase ritmica di preparazione. Limiti che, tranne alcuni casi – come ad esempio l’ottimo Mood Swing -, hanno sempre timbrato il cartellino in ogni pubblicazione di questi artisti nel vero senso del termine. Sono stati capaci di grandi cose, così come di scrivere temini disinteressati e sufficienti, buoni solo per forma e non per sostanza.

In ogni modo di carne al fuoco ce n’è tanta in Hope che inizia subito incantando e col sound metallico e introverso, ma molto molto catchy, di "Whatch Your Back", un brano da 5 con chitarre che si aprono vaporosamente come nebulose, bridge incredibili e uno di quei ritornelli da scrivere nell’enciclopedia del rock (l’ultimo attacco parte sospeso nell’aria ed è il punto più alto della canzone, molto glamour e decisamente anni 80). La seguente "Time Bomb" è una lezione di tecnica che fa accademia e coinvolge totalmente chi ascolta, con riff articolatissimi che stendono tappeti rossi davanti ad un ritornello ottimo e di mestiere. Il meglio del disco, secondo me, è tutto qui. Poi si inizia inesorabilmente a calare e, verso la fine, si rischia addirittura di sprofondare. Emergono in maniera tranquilla le canzoni più ascoltabili e ai limiti di ciò che gradirebbe la casalinga di Boston mentre prepara il pranzo. Sto parlando della title track, che qui non regala grande lustro all’album, e di un pezzo eccessivamente radiofonico come "Days Are Numbered", che nulla aggiunge e nulla toglie alle ballad di band tipo Pink Cream 69. Tra gli altri, da segnalare, ci sono altri due brani che si distinguono e consolano chi ha speso dei soldi per quest’album: "Beyond Repair", che fa ripiombare l’album nella sua originaria aura tenebrosa, e "Shooting Star" che è la ballatona fatta come si deve. Il resto è effettivamente noia e un insieme di “già sentito musicale” che lascia perplessi e un po’ amareggiati. È troppo strano chiudere una carriera con un E.P. di poche tracce per sigillare con l’inchiostro indelebile la propria carriera?

Passo e chiudo con una considerazione: talenti come questi sono sprecati. Dipenderà da chi li ha guidati in sala di registrazione o dai manager. Fatto sta che gruppi inferiori, finiti in buone mani, hanno avuto dalla vita tutto ciò che un hard rocker sogna. Gli Harem Scarem, invece, si sono dovuti accontentare di fare dischi come questo, da eterne promesse mancate. Un pacca sulla spalla a loro. Alla prossima noi.

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