Guardate la bocca di Liz mentre canta. Guardatela e fate attenzione: il vibrato delle corde che si prolunga come un timido tremolio sulle labbra è la porta da cui spira l'anima. Liz Fraser ha le stimmati della divinità. A lei tocca di essere insignita del riconoscimento più prezioso, quello di essere la più grande cantante di musica leggera al mondo. Le ragioni non vanno cercate nel repertorio più noto che per mezzo dei Massive Attack ha dato vita alla sigla di una fortunata serie americana o che attraverso i This Mortal Coil ha reso postumi meriti a Tim Buckley con una cover che ha superato l'originale per fama e successo: queste prove tardive hanno contribuito a rendere celebre la voce di Liz oltre i confini britannici, ma non si tratta certo del più luminoso firmamento in grado di dar contezza della rivoluzione musicale assoluta di cui la cantante scozzese si è fatta interprete nel corso degli anni. È nei Cocteau Twins, il gruppo leggendario che l'ha fatta conoscere al pubblico di lingua inglese degli anni '80, la chiave di lettura del talento divino, dell'avanguardia di cui si fece portatrice sopravanzando la lectio di Meredith Monk nel mettere i suoi esperimenti vocali al servizio della musica popolare senza per questo sminuire la sua luminosa arte.
La carriera dei Cocteau Twins, come avviene nella maggior parte delle band musicali, segue l'andamento di una distribuzione gaussiana: piatta agli estremi e con un picco al centro. Stiamo semplificando: in realtà sia gli inizi squisitamente post-punk di "Garlands" e "Head Over Heels" e le ultime prove dei '90, seppure in calando da "Heaven or Las Vegas" a "Milk and Kisses" passando per "Four-Calendar Café" non sono per nulla lavori da buttare, ma non valgono probabilmente i lavori della maturità artistica che hanno accompagnato buona parte degli anni '80. "Treasure" prima e "Victorialand" dopo sono i dischi che suggellano l'apice del celebre sound "dreamy" con cui la voce di Liz si è librata verso l'Empireo musicale dove le divinità di ogni tempo permangono per effetto del loro talento eternatore.
Liz, attraverso la sua voce, si è resa interprete di una rivoluzione musicale in cui ha messo a punto tre tipi di destrutturazione del cantato. Prendete la struggente melodia di "Frou-Frou Foxes in Midsummer Fires" del buon "Heaven or Las Vegas" del 1990 e ascoltate bene il ritornello intonato dalla Fraser come se fosse un canto difonico senza soluzione di continuità:
Singed by it, pulled around of my blazening
Eyes on the usually science of cherry-colored
Limelight not the music it's plain as as can be so
All of the time I improvise by making sure
It's to wait for you
Questa è la Liz della maturità in cui il cantato è perlopiù comprensibile ed è compito non impossibile intuire le parole di un suo brano. Ma spendendo quel po' di attenzione in più che richiede la comprensione del testo, risulta chiaro che la costruzione del periodo è zoppicante e ingarbugliata e benché siano fragorose certe immagini come "gli occhi sfolgoranti" e "le luci della ribalta color ciliegia", facciamo fatica a mettere insieme i pezzi per interpretare il senso. Liz qui opera una destrutturazione sintattica. Il suo canto è metricamente perfetto, ma per rendersi tale, ha bisogno di liberarsi dalle convenzioni sintattiche che limitano l'espressionismo canoro di cui è magnifica interprete.
Prendete adesso quella miracolosa epifania dell'assurdo che è "Carolyn's Fingers" di "Blue Bell Knoll": Liz fa librare nell'etere gorgheggi esoterici che deformano volutamente il testo trascendendolo attraverso preziose locuzioni che sembrano formule magiche e occulte.
When he said, 'You are full of love'
She fell down into this dirty mess
Some people see me laugh and tell us
'It's wrong to make fun of me'
La sintassi stavolta è chiara e lineare. Ma vi basterà sentire il canto di Liz per capire che la cantante scozzese ha in mente e in bocca altre parole. È tutto un susseguirsi di apocopi, epitesi, anaptissi ed altri espedienti fonetici con cui la Fraser scompone e modella il testo asservendolo alla necessità tutta trascendente di forgiare un canto lirico che si avvale di una lingua in cui il suono della parola ha il ruolo di protagonista principale. È questa la destrutturazione fonetica con cui Liz parte da un canovaccio attendibile per stravolgerlo e renderlo ancora più etereo e immaginifico attraverso il suo magico dizionario personale.
Esasperando ulteriormente le sperimentazioni vocali esplose nel leggendario "Treasure" e poco dopo nell'impalpabile e serico "Victorialand", proprio nel momento del picco creativo e qualitativo del gruppo, Liz e i due fedeli compagni dei Cocteau Twins decidono di collaborare col musicista di avanguardia Harold Budd che in quegli anni sta mettendo a punto una forma di minimal ambient, forte delle collaborazioni col solito onnipresente Brian Eno ("Ambient 2: The Plateaux of Mirror" del 1980 e "The Pearl" del 1984) e di un ormai inconfondibile stile musicale che plasma liquide dimensioni oniriche attraverso l'uso costante e calibrato del pedale del pianoforte. Ne viene fuori "The Moon and the Melodies", felice esperimento che sembra amalgamare alla perfezione due diverse declinazioni di un "dreamy sound" che propende da una parte a commistioni "leggere" con il pop-rock e dall'altra a soluzioni strumentali impregnate di atmosfere olografiche e ambientali. Nonostante gli otto pezzi dell'album siano indifferentemente accreditati sia alla band scozzese che al compositore americano, l'equilibrata suddivisione dei pezzi del disco tra quattro brani cantati dalla Fraser e quattro strumentali lascia intuire dove prosperi di più la mano dei Cocteau Twins o quella di Harold Budd. E in tutti e quattro i pezzi a cui Liz presta la solita magica e astrusa vocalità, è mirabile notare come stavolta la scozzese operi una forma di destrutturazione ancor più estrema ed è quella per la quale adesso ogni parvenza di testo è stata rimpiazzata da un mirabile esempio di glossolalia in un punto di incontro ideale tra un canto gregoriano e una teoria di vagiti fanciulleschi. No, non si parli di grammelot o scat, ché rischieremmo quasi di sminuire la più ingannevole e preziosa delle arti: vi basterà sentire "Sea, Swallow Me" in apertura di disco per capire che Liz nel suo oscuro affabulare, intende altro. Sebbene non vi sia parola tra quelle udibili con un senso compiuto, quell'auspicio di farsi inghiottire dal mare è lì, davanti ai nostri occhi e al cospetto delle nostre orecchie, fragorosamente vivido e reso palpabile da un raccontare che attraverso il puro suono della parola ha il potere di dipingere immagini. È la destrutturazione linguistica il punto più estremo della sperimentazione vocale di Liz, l'espediente della maturità artistica con cui la cantante scozzese realizza che il testo è di fatto un corredo su cui ricamare la passamaneria delle proprie ardite lallazioni. Replicano lo stesso concetto gli altri brani cantati dell'album, dalla torbida e agrodolce melodia di “She Will Destroy You” al crescendo emotivo di “Ooze Out and Away, Onehow", passando per quel piccolo capolavoro di “Eyes are Mosaics" dove la Fraser intona una vertiginosa filastrocca a due voci che concretizza davanti ai nostri occhi giochi di bimbe e danze festose. Il resto fa onore al solito puntuale mestiere di creatore di ologrammi ambientali incarnato da Harold Budd, che ha il merito non banale di comporre e suonare quattro pezzi dai sentori distinti e riconoscibili, laddove spicca il bel sassofono di Richard Thomas dei Dif Juz in “The Ghost Has No Home" e il dialogo drammatico tra gli arpeggi del pianoforte e la chitarra “ambient" di Guthrie in “Why Do You Love Me?”. Il compositore americano è il magnifico valore aggiunto che fornisce il giusto terreno in cui può prosperare il sound dei Cocteau Twins e con esso il supremo talento di Liz Fraser.
Guardate Liz mentre canta “Pearly Dewdrops' Drops": c'è un momento in cui, nel refrain, la voce si sdoppia tra canto e controcanto e la mente è ingannata da questa malia al punto da non saper comprendere dove le voci si originano per poi divergere. È un inganno, un rompicapo, un maleficio. Liz ha occhi azzurri e il bel diastema incastonato nelle labbra. Non una parola da dire, ma tutto ciò che non ha detto l'ha straordinariamente cantato.
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