Dicembre 2020.

«Mi sento vuoto, improvvisamente perso e impreparato a questo… Le sue ultime parole per me sono state “Adios amigo” … lo rimarranno per sempre. Ha lasciato un vuoto enorme con il nome Harold Budd scritto sopra».

Robin Guthrie (ex Cocteau Twins) ha descritto così la dipartita del suo più grande amico e collega Harold Budd.

Era un momento particolare per l’umanità: La pandemia, l’isolamento, l’inquietudine di un silenzio forzato che ha tagliato in due il fragore e l’operosità del mondo.

In un attimo, tra mucchi sparsi di note nere fittissime, si materializzarono improvvise voragini di pause sul pentagramma riducendo a zero il suono del pianoforte ancora e ancora, fino a data incerta.

TACET. Almeno per un po', chissà.

In questo contesto indefinito (In the Mist) Guthrie associa ripetutamente la parola “vuoto” non solo alla morte di Budd, ma anche al suo nome e cognome. Il che vuol dire anche alla sua musica fatta di soffici vasi da cui fuoriesce molto spesso il vuoto della notazione musicale. Il silenzio, appunto.

Ma è un silenzio che, in sessant’anni di carriera, Budd aveva fortemente valorizzato fin dagli esordi. La descrizione di un vuoto costante tra blocchi seriali di note originava dai maestri classici contemporanei (John Cage e La Monte Young) e dai dipinti di Mark Rothko.

In un percorso artistico dettato dal desiderio e dalla fame (non dalla fama), sulla strada per Los Angeles attraverso il Deserto del Mojave, Budd abbandonò l’Avanguardia Minimalista in senso stretto per sfruttare una creatività sorprendentemente (per quei tempi) anti-narcisistica e collaborativa (Eno, Hassel, Foxx, Cocteau Twins, Partridge, ecc).

Con Brian Eno si dedicò alla composizione rarefatta sintetico-pianistica creando de facto i dischi pietre miliari della musica d’ambiente oggi universalmente conosciuta (Ambient 2 – Plateux of Mirror e The Pearl).

Le composizioni per Tre Pianoforti registrate nel 1992, ispirate a Morton Feldman e attribuite alla collaborazione tra Budd, Ruben Garcia e Daniel Lentz è, a mio parere, anima e ossatura poetica di tutto ciò che Harold Budd ha scritto prima e dopo questa registrazione.

Trattandosi di solo pianoforte, anzi, di tre soli pianoforti, Budd ricostruisce la bellezza sfilacciata e originale delle sue idee senza dover ricorrere a nessun sintetizzatore o ai tappeti sonori elettronici drone-style mono accordo oggi francamente abusati in questo genere di musica.

Il trucco è nel titolo del primo di questi brevi episodi: “Pulse Pause Repeat”. Si tratta di pattern assai ripetitivi dove il lieve scostamento temporale dei tre pianoforti produce liquide ombreggiature in punta di dita, inseguimenti lentissimi, abbandoni armonici senza ritorno e pause di silenzio dove tutto TACET.

Il materiale è purissimo e insolito. Non è solo musica da camera ma non è nemmeno una variazione dei Soundscapes Fripp/Eno. Nonostante accordi perlopiù consonanti l’ascoltatore viene abbandonato in territori indefinibili di attesa emotiva e di meditazione. Emozioni certamente pervasive, ma preparatorie, sfumate, che lasciano spazio alle orecchie e all’immaginazione di chi fruisce l’opera.

Siamo lontani (per fortuna) dal romanticismo esasperato e dalla melodia un po' ragionata di certi celebratissimi ambienti neo-minimalisti pop tra i quali oggi spicca Ludovico Einaudi, ma solo per citarne uno dei tanti che ha scelto, a mio parere, la strada maestra del compiacimento del pubblico.

Harold Budd incarna davvero la “Discreet Music” nel senso nobile del termine. È lontano dallo spirito roboante di questo tempo e più vicino al tempo della spiritualità intima del quotidiano. È vicino alle sensibilità del primo Minimalismo ma, senza farne bandiera isolazionista, ha rielaborato per un pubblico più sensibile di non musicisti i suoi concetti principali di silenzio e ripetizione.

Come gli oggetti preziosi che ormai non vediamo più nelle stanze della nostra casa, la sua musica di sfondo, ne sono convinto, continuerà a sopravviverci ancora per molti e molti anni.

Adios amigo.

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