Una mitragliata di frasi molto brevi e semplici con l’utilizzo di un vocabolario nel complesso mai troppo ricercato per una lettura agevole che fluisce tra le mani come acqua, senza intoppi. Forse con troppa facilità perché non dura che una sparuta manciata di ore. Mi piacerebbe poter credere a tutto ciò che Murakami ha scritto, ma in realtà è una testimonianza che per contrasto, (nelle cose che lascia in sospeso e che non trascrive su carta), ha un sapore agrodolce.

Ricordo che due anni or sono, giunto svuotato di energie al traguardo, ero deluso e di umore grigiastro per il modesto risultato conseguito; sorriso di cartone mentre ad ogni pacca sulla spalla e frase di consolazione avrei voluto rispondere con delle bestemmie. Il fatto è che ogni corridore/atleta (amatore o professionista) ha una scusa per giustificare una prestazione sottotono. Purtroppo, quasi sempre i crono sono più obesi e rotondi rispetto al preventivato; forse perché, nella nostra testa, siamo migliori rispetto alla realtà che, un inflessibile ticchettio, mette inequivocabilmente a nudo. Quel giorno andava di gran moda il problema della disidratazione: era una giornata di luglio particolarmente calda perfino a 2000 metri di altezza. Comunque sia, dopo qualche ora, mentre parlavo con tizio, caio e sempronio ho visto arrivare un anziano (successivamente sono venuto a conoscenza del fatto che aveva oltre 80 anni) sul rettilineo finale. La gente in un tempo irrisorio ha interrotto all’istante quello che stava facendo per appollaiarsi alle transenne come famelici avvoltoi armati di applausi e macchine fotografiche; non ho potuto fare altro che incrociare il suo sguardo e lui me lo ha ricambiato. Alì che tira quel pugno a Foreman: io, Foreman.
Ero convinto che avrei dovuto trovare, in quelle grigi iridi, una soddisfazione immensa ed invece era palese solo un enorme sollievo per un’agonia, una tortura, finalmente giunta al termine. Quel signore era distante un paio di galassie dall’essere libero, felice, appagato e fiero di quanto portato a termine. Mi sembrava più simile ad un animale rinchiuso allo zoo o un pezzo di antiquariato al museo alla mercé di fotografie e frasi di ammirazione. La corsa si era impossessata del suo corpo e per una volta all’anno era condannato a dimostrare ai suoi amici e conoscenti la sua straordinaria volontà e resistenza, la sua capaità di non invecchiare. Non un piacere personale, ma più l’impossibilità di disattendere le aspettative altrui. L’ho fotografato mentalmente e quello scatto l’ho piazzato tra le pieghe grigiastre della mia testa con la stronza speranza che quel ricordo mi potesse salvare da una situazione del genere. La decisione successiva è stata quella di ridurre il numero di gare podistiche in montagna, coltivare interessi completamenti diversi, e smettere di correre per 4 mesi all’anno; in questo modo riprendere è un qualcosa di vicino al benessere ed al piacere che anni fa mi ha fatto iniziare. Ma a fine stagione, 120-150 km di dislivello di salita dopo, sono un tossico: da un punto di vista medico le ghiandole del nostro corpo con la corsa fanno scorrere nell’apparato circolatorio una droga naturale: l’endorfina.

Murakami in queste 150 paginette autobiografiche ci parla del suo amore tardivo ed improvviso per la corsa e ne decanta i meriti. In maniera abbastanza retorica e banale descrive la corsa come una sfida con sé stessi, una prova mentale, oltre che fisica, per una disciplina che gli ha cambiato al vita: faticare con costanza, infatti, ha molti punti di contatto con la tenacia e perseveranza necessaria per scrivere un romanzo. La corsa solitaria si confà alla personalità schiva dell’autore che non disprezza la socialità, ma di certo non la va cercando. Correndo entra in un’altra dimensione, in una bolla, trovando anche idee per i suoi libri e si mette alla prova. Fino ai 45 anni con un rigoroso e metodico sistema di allenamento è riuscito a migliorare o mantenere inalterate le prestazioni sulla maratona fino a quando ha dovuto cedere all’evidenza del declino fisico. A quel punto è andato in crisi. Per quanto non lo scriva apertamente la competizione, la ricerca del tempo e del placet dei suoi conoscenti gli ha progressivamente oscurato la gioia di coprire grandi distanze per lasciare spazio alla routine. La soglia delle 4 ore sulla maratona come il baratro, l’abisso dal quale non è possibile risalire e così, prima di toccare con mano l‘onta del numero 4 sul display del suo orologio, decide di cambiare distanza, (prima) e successivamente attività sportiva. Tutto questo perché in ogni nuova maratona il rettilineo finale era sempre più vuoto ed incolore, sempre più lontano da quello che, mentre si allenava in un viale alberato al tramonto, si immaginava di percorrere.
Murakami fa lo struzzo e così comincia a nuotare, va in bici e si dà al triathlon. Scrive sul telaio della bicicletta il titolo di una canzone “sempre 18 anni” e tutto questo mi mette addosso uno spesso strato di tristezza, perché credo che questo autore giapponese (del quale voglio leggere molti altri libri) sia condannato a diventare come quell’atleta anziano del quale ho parlato prima. Forse invecchiare significa perdere la vista; da ciechi non ci si può rendere conto di quanto sia futile cercare con ogni sforzo di negare la realtà. E quanto più vigore si adopera per cercare di svuotare il mare con un secchiello bucato, tanto più si sfocia nel ridicolo. Un ridicolo degno del massimo rispetto e del quale non riesciurei mai a ridere, perché il prossimo potrei essere io.

Mi scuso con voi perché le righe de “L’arte di correre” non parlano di quanto ho testé vomitato, ma in quelle pagine non scritte e sottintese (magari solo una mia impressione) ci ho trovato proprio queste secche considerazioni. Noi, popolo di corridori amatoriali, abbiamo l’illusione di praticare uno sport libero, ma in realtà tra tabelle, cronometri, frequenzimetri, scarpe tecnologiche finiamo con il girare in una ruota come dei fottuti criceti. Non riusciamo a convivere da giovani con la mediocrità/normalità dei risultati che giustifichiamo nei modi più patetici ed in età adulta avanzata neghiamo che il declino fisico possa anche solo esistere. Il fatto che il doping sia in costante crescita tra gli amatori mi sembra un tema molto interessante; non troppo diverso dal lifting di un essere umano che non sa accettare delle rughe espressive sul viso, non troppo dissimile dal peter pan 40enne che entra in discoteca provando ad imitare uno slang ed un modo di comportarsi adolescenziale.

L’arte di correre dal mio punto di vista come la capacità di muovere le chiappe dal punto A al punto B per il mero gusto di sentire il formarsi di uno strato di sale sul viso. Un po’ di pelle d’oca mentre le gambe girano al massimo delle potenzialità. Perché si dovrebbero provare queste sensazioni? Beh, saremo anche tecnologici, digitali e vattelapesca ma in fondo siamo sempre degli animali, e a molti animali piace correre.

Carico i commenti...  con calma