L'altro giorno mi sono ritrovato innanzi ad un panettone con gocce di cioccolato al posto di uvetta e canditi. Ora, niente in contrario con l'uvetta e i canditi (che comunque a molti, soprattutto ai più piccoli, non vanno giù), il fatto è che il panettone è una bella invenzione, ed uvetta e canditi possono, secondo i gusti di molti, sminuire la potenza architettonica del prodotto (conducendo spesso le preferenze verso l'eterno rivale che è il pandoro); e se non si disdegnano affatto uvetta e canditi, rimane pur sempre l'idea che il cioccolato sia qualcosa di innegabilmente superiore. Ecco, il panettone con la cioccolata è una soluzione che rasenta una perfezione talmente astratta che, nella sua ruffianeria, può anche prestare il fianco alla critica

“Ti piace vincere facile, eh?”.

E in effetti, dopo aver assaggiato 'sto benedetto panettone, ho avuto un po' l'impressione che danno gli Audioslave, dove la somma è inferiore alle parti.

Ecco, figlio di questa sensazione è anche l'ascolto di “In a Dark Tongue”, secondo atto della saga Harvestman, progetto dronico del neurotico Steve Von Till: non perché vi sia chissà quale grande alchimia di elementi superlativi, visto che Von till è qui rigorosamente da solo, ma semplicemente perché vi è una superlativa alchimia di grandi generi, visto che Von Till si mette a suonare drone, folk, space-rock e stoner. Insomma, l'idea, almeno in teoria, ammalia, sarà perché non lascia indifferente l'immagine di colui che ha trasformato l'hardcore in psichedelia alle prese finalmente con una commistione talmente totalizzante di forme musicali così intriganti ed al tempo stesso così congeniali con l'estro dell'artisa stesso. E poi diciamolo, suonare stoner è facile, o meglio, anche un cane, ma con la giusta attitudine, ti fa stare bene suonando stoner:

Fuzz fuzz, sdeong, ciaf, vam va-vam e fuzz fuzz di nuovo.

Immaginiamoci quindi come tutto questo possa esser reso da un gigante del metallo contemporaneo quale è Steve Von Till. E invece bah: l'album scorre ed è ben suonato, ma se ci togliamo la scorza innegabilmente piaciona (è facile farsi irretire dall'elettricità), ci troviamo fra le mani un lavoro povero di idee.

Beninteso: Von Till è un maestro dell'elettricità e niente di cattivo può uscire dal suo amplificatore. Ed è pure onesto, il Von Till, tanto che ci piace immaginarcelo, fra le accoglienti mura di casa sua, seduto sulla sua sedia, con la sua barba, la chitarra in grembo ed una pedaliera di effetti di almeno sei metri ai suoi piedi. “In a Dark Tongue”, uscito nel 2009 (quattro anni dopo l'esordio “Lashing the Rye”), è perfino coerente con la filosofia che da sempre ispira le opere di Von Till, non snaturando l'impeto dilatatorio che ha animato gli ultimi lavori dei Neurosis, catturando al tempo stesso il senso di intimità che si respira nelle prove soliste. Una ricerca di sensazioni primitive, atmosfere ancestrali, una modernità superata attraverso la contemporaneità, che è il grande merito della musica neurotica, sospesa fra tribalismi e visioni post-apocalittiche.

In a Dark Tongue” porta così all'eccesso questo percorso, anche se nell'economia dell'insieme non ha poco peso la sana e genuina voglia di tributare gli ascolti della gioventù, in primis lo space-rock targato Hawkwind. E così il progetto di Von Till si muove con passo reazionario alla riscoperta della psichedelia acida degli anni settanta, ovviamente riaggiornandola ai canoni odierni della drone-music più lisergica e (perché no?) spirituale, poiché dietro alla scorza modernista dell'opera, ribollono ambientazioni da età della pietra, come se l'intento dell'autore di “In a Dark Tongue” (come suggerisce il titolo stesso, fin troppo esplicito nella sua programmaticità) fosse quello di scavare all'interno del nucleo più profondo del cuore dell'Uomo, scovarne le Verità nascoste e sempiterne: il minimo comun denominatore che unisce il troglodita all'astronauta.

Del resto, è impossibile non rimanere esterrefatti innanzi al potere visionario di un artista che, armato di chitarre e sintetizzatori, pittura uno scenario che (riprendendo direttamente i colori e le tonalità crepuscolari della suggestiva copertina, opera del sempre ottimo Josh Graham, visual artist degli stessi Neurosis) ci riporta direttamente a riti ancestrali che si annidano nel ventre più oscuro di una selva minacciosa e densa di presenze, al calore di un falò crepitante edsotto le ombre lunghe di inquietanti santoni travestiti da bizzarri animali, in una sorta di orgia naturalistica dove l'Universo trova il suo Zero: un elettrico rituale che intende colpire l'inconscio dell'ascoltatore, senza però tener conto della sua mente.

E quindi tutto non quadra. Nei quasi settanta minuti di “In a Dark Tongue” capita di annoiarsi o, peggio ancora, di ritrovarsi affascinati rimanendo sostanzialmente distanti. Il Von Till fuori dal rigore dei suoi Neurosis è fin troppo libero, anche libero di abbandonarsi a leggerezze che è difficile perdonargli. Come se i Neurosis fossero divenuti una doppia prigione per il Nostro: una prigione che, in quanto autore nei Neurosis, inibisce il libero fluire del suo estro artistico (sotto la cappa asfissiante di una fama da difendere, innanzi all'invisibile influenza di fan sempre più esigenti ed aperti alla delusione facile); una prigione che, in quanto autore fuori dai Neurosis, costringe in nuovi determinismi, come se queste tappe interlocutorie dovessero contenere tutto quello che Von Till non riesce più ad esprimere in seno alla band madre.

Troppo pesante quindi il nome dei Neurosis per essere vissuto alla leggera. Ma allora perché non fondare una tribute band degli Hawkwind e suonare nelle peggiori bettole di periferia sotto falso nome? Perchè il problema del progetto Harvestman è proprio quello di mostrarci sì un Von Till sincero, ma purtroppo al minimo della sua creatività. E da un personaggio che ha contribuito ad inventare un nuovo genere e cambiare il corso della storia della musica pesante è lecito aspettarsi di più.

In ogni caso il mestiere abbonda, Von Till non è un idiota e con la chitarra ci sa fare, ed è abile nel calarsi negli scenari più impervi, nel ronzio metafisico dell'introduttiva “World Ash”, per esempio, oppure negli intarsi degli allucinigeni grovigli di suoni cosmici degni dei migliori Cluster di “Karlstein”, o mimetizzarsi nei field recording di una traccia ambientale quale è “Birth-Wood Bower”, che sembra uscire da un album di Brian Eno; e riesce a spaccare letteralmente il culo con il blues possente che risponde al nome di “By Wind and Sun”, uno dei due episodi in cui compare la batteria (l'altro è la nervosa “The Hawk of Achill”, dove fra l'altro presenzia il deflagrante basso del maestro Al Cisneros) ed unica traccia in cui è presente la voce (voce...diciamo un mantra vocale in cui la stessa frase viene ripetuta all'ossessione, come da un Lemmy in fase di smaterializzazione cosmica!): ah già, perché l'album è pressoché strumentale, interamente affidato alle pastose stratificazioni di chitarre, bassi, effetti e sintetizzatori, quest'ultimi utilizzati con inaspettata destrezza dallo stesso Von Till che si fa carico di tutti gli strumenti, salvo lasciare piccoli spazi a qualche sparuto ospite.

La chitarra di Von Till, si diceva, mutevole, solenne, incredibilmente malleabile nelle mani di un musicista che si trova a suo agio nei fraseggi minimali di un'avanguardia che ritroviamo nelle trame dissonanti di “Music of the Dark Torrent”, o nella rivisitazione di “Eibhli Ghail Chiuin Ni Chearbhail” di John Martyn, trasformata in un trip naturalistico degno di presenziare in una colonna sonora di un documentario di Herzog o nel ripercorrere i sognanti sentieri gilmouriani di “Headless Staves of Poets” ma anche nel montare frenetico dei dieci minuti della già citata “The Hawk of Achill”, un epico ed impetuoso crescendo che ci riporta direttamente alle atmosfere tese di un album come “A Sun that Never Sets”, dove comunque sfigurerebbe, o nella desolazione primigenia degli ossessivi arpeggi di “Carved in Aspen”, o di ”Light Circle”, o dei feedback infiniti della title-track; e nella mitigazione definitiva delle spirali ronzanti della conclusiva “Centre of the World”, che chiude l'album all'insegna del “cosmicismo” con cui si era aperto.

E quindi? E quindi “In a Dark Tongue” farà certamente la gioia degli amanti del genere ed in particolare dei fan di Steve Von Till. E se non tutti gli episodi sono decisamennte riusciti, poiché certi passaggi suonano innegabilmente anonimi, infiacchiti dallo spirito reiterativo delle poche idee messe in campo, come non cedere alle progressioni neurotiche del maestro indiscusso del genere? Ed alla fine vada per le quattro palle, perché tale è la caratura artistica di Steve Von Till, che dalle sue mani non poteva uscire una prova semplicemente sufficiente.

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