Cantautrice originaria di Portland ma residente a Seattle, Heather Duby ha come principale fonte di ispirazione gli eterei gorgheggi di Enya con un gusto a tratti più lugubre, tanto da ricordare alla lontana le litanie di Nico. Gli arrangiamanti, affidati al produttore Steve Fisk (co-autore anche di alcuni brani) sono indubbiamente eccentrici, ricercati e certosini, con un sapore trip-pop spesso presente, così come il marcato rombo del basso (secondo tradizione del genere), cupo e minaccioso, che aleggia su gran parte delle composizioni. Abbondante è anche l' uso dell' elettronica, che ronza intorno ai volteggi vocali della Duby.
"Post To Wire" è il debut-album, risalente al 99. Inizia con un pezzo commerciale (o comunque il più commerciale dei dieci), nemmeno troppo originale, ma godibile. Sicuramante col suo ritmo incalzante di drum-machine, "Judith" avrebbe potuto far breccia nelle discoteche più trendy, impreziosito mirabilmente dalla sensualissima voce della cantante. Ma già il brano successivo, "Kensighton Palace" ci trasporta in territori più rarefatti e suggestivi: canto languido e piano carezzevole scanditi da un ritmo sempre trip-hop in lontano sfondo, ed un ritornello leggero e vellutato. Il minimalismo ipnotico di synth che apre "Falther"orienta il disco su rotte ancora più sperimentali, verso un mare notturno popolato da sirene. Il punto di forza è come sempre la voce, che dà al brano un' aria quasi "ambient", usata come fosse uno strumento. La seguente "For Jeffrey" mostra le maggiori parentele con le visioni di Enya, frastornata da un ritmo da madrigale medievale, e da volute di tastiere celestiali, accarezzate da un canto ultraterreno. "September" è invece una ballata desertica, con tanto di batteria riverberata a scandire un tempo anemico su rintocchi lugubri di chitarra, che fa tornare alla mente spazi siderali e sconfinati. Tutto questo è il giusto preludio al capolavoro del disco, la splendida "Halo Sky" ( quasi nove minuti ), una danza trascinante e quasi esoterica che ammalia con le sue percussioni tribali che si perdono in mille giochi di riflessi al synth, magico altare sul quale si erge la maligna incantatrice di Seattle, che tocca vertici espressivi di rara bellezza.
Se siete amanti del gotico e del trip-pop ( leggasi Portishead e Lycia ) rimarrete sicuramante colpiti dalle capacità ammaliatrici di questo disco.
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