Autenticato diligentemente, dopo essere incorso nell'ira funesta di colleghi ed architetti greci con la mia prima recensione dei maestri Black Sabbath, torno alla carica dal mio studio legale con la recensione a memoria di un disco eccezionale e un po' misconosciuto degli Heavens Gate. Band il cui capo è il buon Sascha Paeth, personaggio reo di aver creato il sound frocetto ed epico dei Rhapsody, con il quale si è forgiato il trademark del "power metal all'italiana" che tanti gruppi nostrani hanno perseguito (ottenendo qualche sfottò in giro per il mondo e nella loro terra natale ma costruendo intanto una qualche scena musicale nazionale).

Divagazioni a parte, c'è da dire che sto disco degli Heavens Gate è assai figo. Per farvi capire più o meno il sound potrei dirvi che è una specie di miscela tra AOR e power metal che produce un precipitato alquanto originale. Trovo, inoltre, che la produzione di questo disco sia a livelli davvero altissimi, tutti gli strumenti producono suoni caldi e pieni di dinamiche (cosa assai rara nelle produzioni del Paeth), estremamente definiti e ben miscelati fra di loro (fighissimi i riff con il basso fretless di un paio di canzoni), contribuendo a creare un sound davvero atipico. Una menzione speciale va poi agli eccelsi arrangiamenti che riescono ad impreziosire tutti i brani non lasciando mai deluso l'ascoltatore più attento e sapiente.

Tra i pezzi è da citarsi sicuramente l'opener track “Terminated World”, che incastona su una strofa e un bridge sincopati e dal ritmo altalenante un chorus solare e molto catchy che lascia davvero un po’ spiazzati (complici i coretti in falsetto dell’ottimo cantante). La tirata “On The Edge” farà godere quelli che quando ascoltano un disco metal fanno track skipping alla ricerca dei pezzi tirati. “Back From The Dawn”, “Rebel Yell” ed “Animal” lasciano intravedere dei ritmi e dei mood più cadenzati e a tratti hard-rockettari senza intaccare la personalità del disco. “Back Religion”, con l’inserzione di uno strumento indiano e con l’utilizzo a profusione di scale minori armoniche (quelle che suonano un po’ arabeggianti usate ed abusate da Malmsteen e co. per intenderci) costituisce invece uno degli episodi musicalmente più interessanti. Piacevole anche la ballad acustica “Children Play”, soprattutto per la scelta di usare un arrangiamento sì orchestrale ma non scassa maroni e fracassone.
Si gode davvero, però, quando parte “Noah’s Dream”, la lunga suite sul finale del disco che alterna sapientemente gli elementi che rendono il sound degli Heavens troppo figo. Un intro a cappella memorabile, un ritornello leggermente epicheggiante ma per nulla pacchiano ed una parte centrale articolata ed imprevedibile fanno di questo brano una vera pietra preziosa che pochi, purtroppo, hanno saputo o potuto ammirare.
Chiude la pratica “This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us” un puro divertissement contenente - però - soluzioni ritmiche ed armoniche niente affatto scontate.

Beh, insomma, basta ciance, cercate in qualche modo di procurarvi sto disco e fatemi sapere! Se, invece, lo conoscete, ditemi senza indugio che ne pensate.
Rock On

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