Come trovarsi di fronte a una parete scoscesa e con pochi appigli. E doverci risalire. Ecco l'impressione che mi dà questa musica. Musica difficile, che richiede ascolti ripetuti, e dedizione. A cui ci si accosta con un certo timore, perché incute rispetto come un monumento o come un baratro. Musica che a tratti ti inquieta e ti ossessiona. Espressione dei malessere e della nostalgia a cui non sai dare un nome. Quella che ti prende senza un motivo, e che senza un motivo anche passa, ma ti lascia un brivido, una vertigine, come un incubo da cui ti svegli di soprassalto in una notte in cui ti ritrovi solo a fare i conti con qualcosa che nella vita è andato storto.
Heinz Holliger non solo è uno dei più grandi oboisti sul panorama classico internazionale, ma è anche uno tra i più fini compositori contemporanei. Allievo di Pierre Boulez e di Sándor Veress, il grande virtuoso svizzero dell'oboe è da tempo compositore di musica rarefatta, inquietante, cristallina ed eterea. E in questo album, intitolato significativamente "Canti senza parole", viene raccolta una selezione della sua musica da camera più raffinata ed evocativa. Un ambiente musicale doloroso e profondo come un quadro di Munch, con i colori musicali del violino, del pianoforte, dell'arpa.
Il primo brano, "Frühlingslied" ha ben poco del "Canto di primavera" a cui il titolo si riferisce. Il violino e il pianoforte dialogano come due amanti alla fine di una storia sbagliata, dove solo il languore della carnalità ha ancora un senso e le parole non servono più. Il violino intona frasi sensualmente voluttuose, mentre il pianoforte si mantiene freddo ed algido come in un abbraccio che non riscalda più, ma soffoca impietosamente. Al dolore e alla incomunicabilità, fanno spazio "Intermezzo I" e "Intermezzo II", due gioielli di inquietante bellezza, due perle di poco più di un minuto, incastonate come chiavi di volta in una cascata musicale traboccante di ansia e di emozione. "Lieder ohne Worte II" si chiude con "Berceuse matinale", una sorta di inquietante ninna-nanna funebre, dove il senso di lontananza e di distacco sono palpabili, dove l'assenza è vivida e ferisce nel suo non esserci. Uno spazio vuoto che non si può colmare, qualcosa che ti implode dentro. E il violino e il pianoforte che collassano in "pianissimo" che ti affondano in vortici di silenzio.
Brano assolutamente inquietante è "Trema", qui proposto nella versione per violino solo. Focalizzato sul tremore (esistenziale prima che fisico) e sulla corporalità, ricco di sonorità stridenti e acute da mosca in trappola, perso in una atmosfera claustrofobizzante e nevrotica. Un affresco musicale del mondo falcidiato dalla guerra e della mancanza d'amore, affresco dove la vernice si scioglie in forme inquietanti e prive di senso, dove il suono si fa liquido e la melodia ci galleggia sopra come una zattera alla deriva. Una sorta di "Guernica" per violino solo. Dove forse l'unico nemico siamo noi stessi.
Ma il vero capolavoro del disco è "Elis: Drei Nachtstücke für Klavier", per piano solo. Più che "pezzi notturni", questi tre brani sono fiebeschi e nordici. Richiamano atmosfere gelide e montuose, boschi inquietanti abitati da presenze ambigue, dove ci ritroviamo come Pollicino senza sapere più la strada, né come ritrovarla.
Come trovarsi di fronte a una parete scoscesa e con pochi appigli, questo disco. Ma se si ha il coraggio di affrontarla, questa parete, e di risalarci, scopriremo degli scorci, dei panorami interiori, da mozzare il fiato tanto sono belli e veri. Da rimanerne senza fiato. E soprattutto senza parole. Come questi canti.
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