Che Helmet siano unanimemente riconosciuti tra le più inquiete, interessanti, fragorose e apprezzate entità estrapolate dal corrosivo, rumoroso e decisamente poco allineato (noise)rock a stelle et strisce non v’è dubbio alcuno in merito; la significativa proemiale coppia di lavori pubblicata a cavallo del sorgere dell’ultima decade del secolo scorso ed in particolar modo l’inquietante, intensissimo, stratosferico debutto (Strap It On - 1990) è lì incontestabilmente a ricordarlo e, nel qual caso a qualcuno sia a tempo debito sfuggito, tuttora a tangibilmente testimoniarlo.

Che Page Hamilton, dopo aver contribuito responsabilmente ad abbattere la incrinata se non pericolante Helmettistica-baracca (l’insipido “Aftertaste” ‘97) e due anni or sono a tentar di riporre in piedi le oramai consunte, logore e accatastate assi, alla luce del presente sesto completo lavoro in studio rappresenti l’unico residuato nonché solitario nume tutelare di quella epocale formazione, non risulta oggettivamente gran bella notizia.

Che tramite questa (dato il mediocre re-union predecessore) neanche-tanto-attesa Monocromatica-pubblicazione, definita dallo stesso Monsieur Hamilton quale (complicato) “return to basics”, richiami a sé, come ci si sarebbe attesi e come, forse, sarebbe stato opportuno ma non obbligatoriamente risolutorio, non i membri della originaria stritolasuono-congrega, bensì solamente chi si occupò delle recording sessions, ovvero del responsabile del “suono-Helmet” (tale Mr. Wharton Tiers) delle iniziali e di maggior pregio qualitativo sortite, lascia ulteriormente moderatamente dubbiosi.

Che l’incipit illuda e inaspettatamente travolga, in virtù d'una insperata, abrasiva, squadratissima (nostalgica ?) oltreché riuscita seconda traccia (“Brand New”) letteralmente al vetriolo (parrebbe proprio una outtake dal debutto) ma che contestualmente e sostanzialmente deluda ampiamente in buona parte dell’affannoso, a tratti scorato, ascolto-circostante [tra vocals francamente imbarazzanti di una sterilizzata title-track o la bulimica “Almost Out of Sight” (indecenti persino se fossero state penna-partorite da un Dave Grohl qualsiasi..)] risulta francamente inaccettabile se non concretamente masochista. Energiche scaglie quali “410”, “Swallowing Everything” o la conchiusiva “Goodbye”, da annoverarsi tra i momenti più “felici” (o meno vacui: Fate Vobis), parrebbero quasi b-side (forse c-side ?) recuperate di straforo dal terzo ed altalenante (quantunque integralmente ben al di sopra della soglia della decenza) “Betty” (’94): par di assistere a una sorta di non particolarmente esaltante (e poco credibile) revival noise-rock, costituito da suono affilato quanto agile, “muscoloso”, a tratti positivamente nervoso, ma troppo spesso privo di quella essenziale intensità, di quella fondamentale spinta suono-reazionaria, di quella necessaria, vitale, virulenza che dovrebbe fattivamente sostanziare un lavoro degno del trascendentale monicker come quello posizionato in tanta e bella evidenza in de-copertina.

Che diamine.

Carico i commenti...  con calma