Il 1969 è l'anno di "Easy Rider", film simbolo della controcultura e -con il suo budget minimo- dell'offensiva alla grande industria cinematografica, una pellicola che curiosamente è diretta e interpretata da quello stesso Dennis Hopper che (in un ruolo molto meno importante) ritroviamo in "Il Grinta". La presenza di questo attore in entrambe le pellicole rende evidente la schizofrenia di un universo produttivo che vive una lacerazione ormai non più ricomponibile. Il successo di pubblico del film con John Wayne è il canto del cigno di un cinema western che ormai deve cedere il passo a nuovi autori, nuovi temi, nuovi volti: il 1970 vede infatti l'arrivo sugli schermi di "Soldato Blu" (di Ralph Nelson, con Candice Bergen) e di "Piccolo grande uomo" (di Penn, con Dustin Hoffman), mentre nel 1971 Robert Altman firma "I compari".
Gli anni settanta apparterranno a questi nuovi protagonisti, ma nel 1969 due grandi vecchi come Henry Hathaway e John Wayne potevano ancora primeggiare su un orizzonte incerto. E l'idea di fondo era quella: proporre il ritratto di un vecchio colosso, forse troppo grande, troppo sincero e brutale, troppo poco rispettoso delle regole per i tempi in cui vive. Il progetto calzava a pennello al mitico Wayne, che pensava che così dovessero essere i suoi personaggi, esempi di virtù virili e di coraggio, gente che si fa carico in prima persona di difendere la giustizia ma, ovviamente, senza perdere più tempo del necessario e senza farsi scrupoli a ricorrere a mezzi sbrigativi. Quando non c'è un regista del calibro di Hathaway, questa materia diventa il roboante non memorabile "Chisum" (1970) di McLaglen, ma "Il Grinta" è un film di tutt'altra stazza per ironia, intelligenza, ricchezza di spunti (non a caso è stato il prototipo su cui si sono basati gli italiani Berardi e Milazzo per realizzare una delle più belle avventure del loro fumetto western, "Ken Parker")
La chiave della diversità del Grinta sta nella presentazione ironica e apparentemente antieroica del protagonista, descritto come un semialcolizzato vecchio brutale, un uomo della frontiera che finisce per prendere ordini da una caparbia ragazzina. Ed è anche guercio. Alle prime apparizioni "Rooster" Cogburn (il protagonista) sembra incarnare quasi una parodia dell'eroe western, per esempio quando scopre un topo nella casa in cui vive. In preda ai fumi dell'alcool il protagonista abbozza un tentativo di arresto "pacifico" del trasgressore, ma si vede successivamente obbligato a ricorrere alle maniere forti uccidendo l'animaletto con una revolverata. Se il vero intento del film fosse stata la dissacrazione, probabilmente il colpo sarebbe andato a vuoto, ma Cogburn centra il suo bersaglio al primo tiro, nonostante sia sbronzo.
E infatti la storia ci mostrerà come il personaggio incarnato da Wayne sia un uomo di legge capace, determinato, coraggioso, quel tipo di eroe coriaceo di cui l'America sentiva di aver bisogno (guarda caso, l'anno successivo vede il trionfo agli oscar di "Patton generale d'acciao" e l'anno dopo ancora di "Il braccio violento della legge"). Curiosamente questa apologia western del giustiziere americano è uscita dalla penna di una sceneggiatrice, Marguerite Roberts a suo tempo cacciata da Hollywood perchè finita sulla lista nera della Commissione per le attività antiamericane. Wayne, che era stato un convinto sostenitore delle liste, non si lasciò fuorviare dai consigli di chi lo sconsigliava di prestarsi a interpretare l'opera di una "black-listed", si gettò come suo solito senza riserve nell'impresa e ne fu ripagato con la vittoria all'oscar e con un grande e meritato succeso di pubblico, che cancellò le polemiche e gli insuccessi degli ultimi anni (soprattutto per il contestatissimo "Berreti verdi" del 1968).
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