Tropico del Cancro di Henry Miller è uno dei libri che mi hanno formato come lettore e oserei dire come essere umano.

L'ultima volta lo lessi almeno 15 anni fa.

Qui Miller tocca delle vette che vanno molto oltre l'autobiografismo un po' superfluo di altre sue prove (il suo libro migliore secondo me è Primavera nera, che anche se prende spunto da episodi più o meno autobiografici ti porta in luoghi incantati tra la Francia e l'immaginazione pittorica di Henry che hanno poco a che vedere con altri passi meramente aneddotici, comunque spassosi, di, per dire, Tropico del Capricorno o Nexus).

La sperimentazione linguistica e la prosa poetica sono fantastiche in questo libro che si apprezza meglio in lingua originale.

La prima persona è usata benissimo ed è veramente coinvolgente.

Una cosa che distingue l'autobiografismo di Miller dagli a volte tristi epigoni contemporanei (epigoni dell'autobiografismo, non di Miller; Miller è tante spanne sopra, quando s'impegna, senza alcuna sistematicità però) e che lui TI FA VEDERE IL MONDO FUORI, con i suoi occhi, sono pochi i momenti di esclusiva interiorità e anche quando ti porta a passeggio tra i suoi demoni, i suoi tic e le nevrosi di uomo comune, confuso e disorientato come tutti, traluce da questi passi tutto il mondo fuori, la guerra e la follia che incombe e il non trovare il proprio posto in quanto scrittore in un mondo sempre meno spontaneo e sempre più meccanizzato. L'autobiografismo di Miller insomma è un autobiografismo volto all'esteriorità, a quello che succede fuori, nelle strade, nelle piazze, sugli scalini delle cattedrali, negli appartamenti degli amici o degli sconosciuti appena incontrati, è un viaggio fra la Parigi degli emigrati americani negli anni 30, sbandati e sradicati come lui, artisti o wannabe artisti, gente traumatizzata dal capitalismo selvaggio americano che tenta di salvarsi esplorando un altro mondo, un mondo molto meno spersonalizzante delle desolate metropoli statunitensi.

Quello di Henry Miller è un autobiografismo che ha una lunga e nobile tradizione: Proust, Celine, Kerouac, Bukowsky, Houellebecq e tanti altri che adesso non ricordo, un autobiografismo che ha il merito e la forza di farci comprendere che è l'esteriorità che viene prima di tutto e che forma anche le nostre interiorità più profonde, che in realtà l'interiorità pura non esiste, è un mito romantico che ha fatto più danni che altro.

Siamo dalle parti del Viaggio celiniano, che non a caso Miller aveva appena letto prima della stesura di questo. Non proprio a quei livelli, ma Tropico del Cancro ne è un degnissimo epigono.

Tra le vicende raccontate dal goliardicissimo (e a suo modo tenebroso) Enrico, ci sono episodi così crudi, grotteschi e surreali che il lettore non può fare a meno di domandarsi se siano cose veramente successi o meno. Un'altra inevitabile domanda è come faceva il disoccupato Enrico non solo a sopravvivere e trovare il tempo per sfornare romanzi epocali ma anche a concedersi bar, sbornie, alberghi, ristoranti e ovviamente escort.

Non resta che rispondersi che fa tutto parte del mistero e del fascino picaresco di uno dei romanzi più importanti della narrativa franco-americana della prima metà del 900.

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