Dopo aver terminato la seminale esperienza coi Black Flag, Henry Rollins decide di intraprendere la carriera solista. Siamo nel 1987 quando esce “Hot Animal Machine”, il primo disco della Rollins Band. I tempi sono cambiati rispetto a quando Rollins militava nei Black Flag. Allora la personalità ingombrante di Henry doveva fare i conti con quella di Greg Ginn, uno dei chitarristi più originali ed influenti della storia dell’hardcore. Ammainata (non senza livori) la Bandiera Nera, Henry Rollins (scrittore, oltre che cantante e compositore) diventava il protagonista assoluto della sua musica. Debordante, feroce, aggressivo, bestiale, furente, minaccioso, nevrotico, Henry Rollins domina la scena in questo sfolgorante esordio. Il timbro roco della sua voce è, a ben vedere, un dettaglio rispetto a quella che rimane la sua peculiare cifra stilistica: il canto “fuori dalle righe”. Le liriche (leggi: le invettive) di Rollins sono spesso molto articolate e cantate (o meglio: recitate) in maniera contorta, teatrale, senza preoccuparsi di sforare dalla strofa. Sono fiumi in piena, sempre in procinto di rompere l’argine. Sono liberi sfoghi sui mali dell’America e, in generale, della realtà contemporanea. Henry Rollins è il Patti Smith dell’hardcore. E come la madrina della new wave, anche Rollins aveva bisogno di una band di supporto che “stesse a dietro” alle sue improvvisazioni canore, ai suoi deliri, ai suoi bisogni impellenti di comunicare qualcosa di pregnante. Serviva dunque a Rollins un chitarrista diverso da Greg Ginn, che aveva anch’egli la predisposizione ad un accompagnamento free-form, ma che prediligeva composizioni ben strutturate, sorrette da riff di granito e ritmiche asfissianti. Henry trovò l’uomo giusto in Chris Haskett (come la Smith in Lenny Kaye), musicista intelligente e versatile, capace di passare dal rock’n’roll al noise, dall’hardcore al garage, dotato di un chitarrismo amorfo, sfilacciato, depotenziato, malleabile, sempre al servizio del leader. Una diligente sezione ritmica completava la formazione.
“Black And White” apre le danze all’insegna di una tensione allucinata; è un brano che mette a disagio, nel suo evocare stati d’animo tra i più tormentati e nel negare l’assalto frontale dei Black Flag: i tempi di “Rise Above” paiono così lontani…Poi arriva “Followed Around”, uno dei migliori brani del disco, saliscendi vertiginoso tra i vuoti di un Rollins sornione e i pieni di un Rollins straziato, mentre la chitarra non raggiunge mai livelli di intensità catartici, rimanendo sempre paradossalmente flebile e soffusa anche nei momenti di sfogo. Quello della Rollins Band è un rock’n’roll virato sul nero o un metal depotenziato, a seconda dei punti di vista. Il beach-punk di “Lost And Found”, nonostante la ritmica fratturata, è uno dei momenti più distesi del disco; l’esatto contrario di “There’s A Man Outside”, perverso psychobilly corroso dalle dissonanze più sgradevoli e disturbato da percussioni casuali, efficace dimostrazione delle qualità animalesche del canto di Rollins, che qui pare messo in gabbia, soffocato, stritolato da un Haskett che questa volta gli è ostile. Anche “Hot Animal Machine 1” parte a rotta di collo, carica di una suspence che non cala né si accresce, nemmeno tra le scintille chitarristiche dello scandito refrain. Quella di Rollins è una tensione irrisolta, incapace di trovare sfogo: è come una corsa a perdifiato, senza possibilità di sosta.
Il radicamento di questa band nella tradizione è dimostrato dalla presenza di ben tre cover. C’è una squadratissima “Crazy Lover” (Chuck Berry), una fragorosa “Move Right In” (Velvet Underground) e una sorprendente “Ghost Rider” (Suicide); sorprendente perchè sostituisce la claustrofobia dell’originale con un piglio quasi epico e, tra gli stridori del feedback, l’effetto complessivo è quasi cow-punk.
Ma l’Henry Rollins più autentico è probabilmente quello dei brani free-form: “A Man And A Woman”, “Hot Animal Machine 2” e “No One”. Nella prima, una ritmica zoppicante e una chitarra fatta a pezzi sono il sottofondo per una delle scorribande vocali più irresistibili dell’album, con Rollins impegnato a declamare liriche cariche di sarcasmo, con una cadenza ai limiti del rap. Nella seconda, per la prima e unica volta, la voce di Rollins passa in secondo piano, dissolta com’è nel suo eco e immersa in un inebriante girotondo di chitarra. La terza, infine, salda il conto coi Black Flag di “Damaged”. La ricordate? Cominciava così: “Hello, my name is Henry...” e finiva con un Rollins inviperito, in lite col mondo intero, a urlare con disprezzo “No One Comes In! Stay Out! Damaged!”. La storia si ripete in “No One”, se possible con un tessuto armonico ancora più sconnesso, con un tasso di angoscia e terrore ancora più marcato e con un Rollins che parte in sordina per poi esplodere di colpo: quando alla fine arriva a urlare “Just Bring Your Little Eyes Over Here!” pare davvero posseduto dal demonio.
E’ il suggello ad un disco capace di rappresentare, in tutte le sue sfaccettature, la personalità di uno dei maggiori esponenti del rock americano moderno.
Carico i commenti... con calma