"Cantaloupe island" la conoscono tutti, anche chi dice di non conoscerla: chi ora ha intorno ai vent'anni si ricorderà del campionamento in "Cantaloop", i membri del sesso maschile che hanno occhi per guardare si ricorderanno del sedere di Rossella Brescia e quindi, per condizionamento, anche del pezzo che fa da colonna sonora al suo strip.
Ora, affrontare un disco, appunto questo "Empyreal Isles", che contiene un pezzo famoso come Le isole del Melone (cosa che lo accomuna a "Time out" di Brubeck), famoso anche tra quelli che il jazz non lo masticano, presenta un ovvio rischio intrinseco, cioè di far di questo brano il perno dell'album, o meglio di pensare, prendendo un abbaglio colossale, che questo brano ne sia il fulcro.
Tanto più se il disco è di uno come Hancock, che rientra in una schiera di artisti che, sebbene tutti siano d'accordo che abbiano inciso grandi dischi e che siano dei grandi jazzisti, in fondo non sono tra i più considerati dalla critica specializzata, molto probabilmente per colpe (o meglio per presunte tali) di cui si sono macchiati durante la loro carriera, vedi aver inciso uno tra gli album jazz più venduti di sempre o essere finiti nella classifica dei singoli di Billboard col singolo preferito dai breakdancers.
Ma no, questo non è solo un buon disco di buon jazz. Per questo disco ci si possono tranquillamente sperticare le mani.
La formazione: il nostro al piano, Freddie Hubbard alla cornetta, Ron Carter al basso e Tony Williams alle pelli, in pratica il quintetto di Miles meno Shorter; insomma, un gruppo solido e rodato di giovani, ribelli quanto basta alle regole dei padri per cercare nuove vie (e fu proprio per questo che Miles li volle, of course).
Ovvio che per andare avanti, bisogna fare il punto della situazione, fare le valigie e poi portarsi su nuove direzioni: questa è la più probabile chiave di lettura di questo "Empyreal Isles", che già dal titolo, traducibile con le isole dell'empireo, indica la volontà, in un solo album, di fare musica secondo quattro modalità, quattro isole iperuraniche, che poi avrebbero costituito la base per il futuro di Hancock, e cioè hard-bop, modale, funk e free. Ambizioso, eh? Soprattutto se si pensa che è Hancock ad aver composto i quattro pezzi di cui si compone l'opera.
Non è insomma un album liquidabile con un solo ascolto, anzi, al di là di meritarne, necessita di numerose sessioni per essere compreso appieno: "One finger snap" mostra immediatamente, ed in maniera totalmente fulminea le potenzialità del gruppo, con un Hubbard eccezionale a fare il bello ed il cattivo tempo per la prima metà del pezzo, Hancock che ad un certo punto scompare e Williams che invece che tenere il tempo fa anche lui quel che cazzo gli pare, l'unico a tenere in piedi la baracca è proprio Carter; poi torna dentro Hancock e dà il cambio ai fiati, ed attacca con una cascata di note impressionante, l'orecchio fa veramente fatica a stargli dietro, è sempre un attimo più avanti alla nostra percezione ed una risata sgorga dal ventre perché questa musica è dannatamente vulcanica, vitale, veloce eppure melodica, non se ne può fare a meno, si inventa poi un riff giusto per dare un po' di tregua e poi ricomincia a correre, delicato e ritmico come non mai. Dio, sembra che il piano lo suonino due persone! Ritorna il tema centrale, e poi Williams ci dà il colpo di grazia. Perfetto, tutto così millimetricamente pensato, ed anche così maledettamente semplice, che il risultato è come ovvio più della somma, del prodotto e del quadrato dei fattori.
E se prima Carter aveva fatto da gregario, ora, in "Oliloqui valley" apre il pezzo modale, e si sente: Hubbard è più davisiano, Hancock si rilassa e gioca fra toni bassi ed alti e dispensa note in combutta con Williams che, con tempi e controtempi, ne esalta il valore emotivo; naturale ed esplicito l'ingresso di Hubbard che gioca sornione tra note lunghe e brevi staffilate che, si mi consentite, ricordano non poco il Miles che si sentirà nel periodo elettrico, ed anche quando decide di volare non complica mai troppo la faccenda ma la gestisce su note più che altro di utilità ritmica; intimista è il momento concesso a Carter, che se a tratti richiama alla mente Jimmy Garrison, regala poi pulsazioni basse di altissimo valore; ritorna il tema, lo spazio di un altro paio di invenzioni, ed anche questa prova è magnificamente andata.
Entra la balena bianca: "Cantaloupe island", e la testa può cominciare a muoversi su e giù, ci si può sentire come uno di quei tipi di Harlem alti e magri molto cool nelle loro suite color violetto con cappello annesso, il mito è ad una schioccata di dita di distanza; il tiro del pezzo è ovviamente pazzesco, funk&jazz!, ed Hubbard qui si gioca la carta cinematografica, con una profonda coltellata verso il secondo minuto per poi andare per nitore e silenzi, privilegiando la componente ritmica dei suoi solo, fino a cedere lo spazio al padrone di casa che alla maniera dei gospel, alternando domanda e risposta, recupera la radice blues del brano mantenendo un groove insuperabile.
Semplicità, brividefera semplicità.
Un ultimo quarto d'ora di attenzione, signori: "The egg", da sgusciare; intro funk ma che richiama Monk, ancora una volta Hubbard sugli scudi (e si vede che è passato per le mani di Coleman in "Free Jazz"!), la sezione ritmica è invece marziale ma anch'essa dispari e sbilenca, la tromba delinea squarci di luce dove il resto delinea una pianura densa di oscurità; poi, con chiara ispirazione mingusiana, il contrabbasso viene maltrattato con l'archetto, estraniando ancora di più l'atmosfera, e da che si era in uno spazio che per quanto ignoto era evidentemente aperto, si passa ad una stanza chiusa, quasi lynchiana, dove gli strumentisti paiono essere illuminati di volta in volta da un occhio di bue, e sono loro tutto ciò che è dato di vedere, fino a mostrare la via di fuga che ovviamente viene offerta dal piano di Hancock, una via di fuga che, pur senza tralasciare le asperità, porta dritta verso un blues: pare dirci Hancock che nonostante le apparenze il free è comunque una rievocazione ed un omaggio alla musica dei padri.
Poi, in risalita, veloci, i charleston incalzano, i tasti accelerano, poi, con deviazioni che fanno perdere l'orientamento, ci si trova al cospetto della batteria, e del costante suono delle spazzole sulle pelli, poi, come in un rito tribale, solo la cassa, un crescendo, un diminuendo, e come per magia, ci ritroviamo al punto di partenza, dopo essere scesi e risaliti dal centro della terra.
Non è un viaggio facile, questo disco: "Cantaloupe island" ne è solo la punta dell'iceberg (ed anche questa punta è più profonda di quanto sembri), e le altre tre isole meritano altrettanta attenzione nell'essere esplorate.
Un capolavoro, un sunto di quello che era il jazz in quegli anni con uno sguardo gettato avanti: e pensare che Hancock, quando ha plasmato questo macigno, aveva appena 24 anni...
Carico i commenti... con calma