Una delle sorprese del 2024. Chris Herin, chitarrista dei sottovalutati e non troppo prolifici Tiles, se ne esce con un album solista ed è un disco dotato di una buona ricchezza di soluzioni e arrangiamenti. Alcune caratteristiche tipiche della band di provenienza vengono ristrette ed altre ampliate. L’album è tendenzialmente meno prog e decisamente spoglio di quella vena hard rock che caratterizza i Tiles. Herin preferisce invece sviluppare una vena folk ed etnica che nei Tiles invece si affaccia ben più timidamente, limitandosi ad alcune incursioni in territori Jethro Tull senza andare troppo oltre. Qua invece più libero sfogo a mandolini, banjo, archi, flauti, oboi, percussioni, anche un solo di sax e una tromba, tutto a creazione di un pacchetto elettroacustico assolutamente entusiasmante. L’impressione che si avverte è quella di un musicista libero dalla sua band e quindi libero da vincoli, che può così sbizzarrirsi e sfoderare tutta la propria creatività. Anche se a dire il vero già nell’ultimo lavoro dei Tiles, l’ormai già datato “Pretending 2 Run” del 2016 (cosa stanno aspettando a tornare?), ci si era concessi ad uno sfogo abbastanza libero, già quello era un lavoro che brillava per varietà di soluzioni.

Notevole poi anche il cast, Herin non si circonda di personaggi anonimi e ha attorno guest assolutamente di rilievo, anche di lusso, in pratica gli ospiti sono più celebri del padrone di casa, anche di moltissimo, provenienti anche da band come Jethro Tull, Rush e Porcupine Tree. Abbiamo nomi del calibro di Michael Sadler, Martin Barre, Doane Perry, John O’Hara, Peter Frampton, Kim Mitchell, Alex Lifeson, Colin Edwin, Randy McStine, Tim Bowness e tanti altri… Se poi aggiungiamo che la produzione è a cura di Terry Brown e l’artwork è di Hugh Syme allora si capisce subito che non può essere un prodotto scadente o mediocre.

Chi poi dà particolare importanza ai testi e alle tematiche (lo sapete che io invece ho il difetto di darvi spesso poca importanza, sono sempre molto focalizzato sul sound e sul lavoro strumentale) rimarrà molto probabilmente colpito dal concept dell’album, che è focalizzato sulla lunga battaglia del padre di Herin contro l’Alzheimer, una causa che lo stesso musicista ha sposato donando i proventi del disco ad associazioni no-profit sulla malattia e persino coinvolgendo diversi musicisti con casi in famiglia della malattia.

Credo che sia la vera sorpresa dell’anno passato, un gioiello folk rock che probabilmente rimarrà nell’anonimato totale ma che è pienamente in grado di soddisfare, anche parecchio, chi ama quell’approccio che mischia sonorità elettriche ed acustiche. Da provare.

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