E' possibile cominciare a leggere un libro emettendo un giudizio piuttosto negativo e annoiato al suo riguardo, e cambiare poi drasticamente idea, sentendo che quel libro è riuscito ad aprirti gli occhi, a farti riflettere, a conquistarti? Bè, per me è stato proprio così.

Ho cominciato a percorrere il libro, all'inizio, con un senso di estraneità piuttosto sgradevole: non è che mi annoiasse, ma avevo la strana sensazione che il messaggio del libro non mi fosse destinato, che la (le?) personalità dello Steppenwolf non avesse affinità con la mia: così lo leggevo assai lentamente, benché il trattato sul "Lupo della Steppa", avesse già attirato la mia attenzione in certi punti (in particolare la metafora del giardino usata per descrivere l'aspetto variegato delle personalità). Così mi stavo obbligando ad andare avanti, un po' stanca di leggere della solitudine e della specie di misantropismo di Harry... fino al momento in cui il protagonista incontra Erminia. E a partire da lì, il libro mi ha incantata: dopo il solipsismo e il piangersi addosso, Harry diventava umano, parlava, si apriva alla vita, alla gente, al piacere. Finalmente, la sua vita non si concentrava più solo sul mondo dello spiritio, su Goethe e Mozart, ma si apriva anche ai sensi (con Maria ad esempio) e alla vita.
E l'ho letto così tutto d'un fiato, affascinata dal teatro magico, dagli Immortali e dal loro umorismo, desiderosa soprattutto di aprirmi a quella "musica radiofonica della vita", quella che permette di superare la dicotomia fra la realtà e l'apparenza, fra il tempo e l'eternità, impaziente di giocare con le pedine del mio "Io", esattamente come Harry.

Il libro non ha nulla di realista, lo si puo' anche considerare il banale delirio di un pazzo, eppure sembra tutto così vero, così profondo... Il libro diventa così una "riflessione" a tutti gli effetti: tutto è basato infatti su un gioco di specchi. Così, è nello specchio del teatro magico che Harry vede le sue infinite personalità, è Erminia che costituisce per lui uno specchio ai propri pensieri (e che presenta inoltre una gran somiglianza con Hermann, l'amico d'infanzia di Harry, altro gioco di specchio- soprattutto quando si pensa che anche l'autore porta lo stesso nome). Harry parla addirittura di sé a più riprese alla terza persona, designandosi o come "Harry" o come "Lupo della steppa", come se stesse contemplando la sua immagine (impressione rafforzata dalla nota dell'editore, uno sguardo esterno che dà la sua "visione" del personaggio). Ma il libro diventa soprattutto uno specchio per il lettore: perché alla fine, non mi sono più sentita estranea alla vicenda di Harry. Benché la dimensione politica non fosse quella che mi colpiva di più, benché avessi la fortuna di non trovare l'esistenza assurda e benché non conoscessi la solitudine glaciale del Lupo delle Steppe, mi sono resa conto che la riflessione sull'Io era musica ("radiofonica"?) per le mie orecchie, e che quell'atmosfera onirico-simbolica (Erminia alla fine chi è? una figura del destino, che impartisce quindi ordini a Harry? e Pablo? semplice musicista seducente o detentore della verità attraverso le illusioni del teatro?) mi aveva definitivamente sedotto. Era da anni che non leggevo un'opera che mi colpisse così profondamente.

Sì, senz'altro Il Lupo delle Steppe ricorda Siddhartha (non fosse che per la figura della donna dominatrice che inizia l'uomo ignorante ai piaceri della vita, o per la ricerca del proprio Io); eppure lo Steppenwolf, ha una marcia in più: forse quell'atmosfera che oscilla fra pazzia e lucidità, o forse quella distanza, quell'"umorimo" che mi seduce più del tono solenne della leggenda... o probabilmente perché ho finito per amare Harry, per scoprirme il lato umano, benché l'avessi sentito così estraneo a me sulle prime: e ho provato per lui una tenerezza incredibile.

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