Mamma superbia; figlia stupidità.

Melville doveva aver riflettuto tanto sull'argomento quando immaginò il carattere del celebre capitano roso dalla rabbia, incapace di perdonare, con la mente così accecata da credere di poter compiere l’impossibile.

Stupidità colossale con carisma irresistibile. Un carisma capace convincere alcune persone a seguirlo nel più annunciato dei suicidi. Perché c’è una triste verità con cui fare i conti: gli stupidi sicuri di sé affascinano tanto. Ennio Flaiano ha coniato apposta un aforisma : “Se uno stupido affascinante afferra un’idea su quella costruirà un sistema e riuscirà a portare altri a seguirlo in quell’idea”. Dalle persone affascinanti, liberaci o Signore.

Tra gli uomini che lo seguono c’e lui, l’insignificante Ismaele. Insignificante sì, ma con la più grande delle virtù: l’umiltà. Virtù davvero divina. Sono tanti i temperanti, i miti, i puri; pochissimi i veri umili. Ismaele è in questo piccolo gregge. Nessuna pretesa. Nessun ossessionante obiettivo superiore alle proprie forze da raggiungere a tutti i costi.

Mentre la voglia di vendetta di Achab monta sempre di più fino al totale accecamento mentale (cf. “Le candele”), l’adorabile Ismaele è lì ad osservare i pesci, in tutti i loro insignificanti e meravigliosi dettagli, quei dettagli che in prima lettura ci hanno mortalmente annoiato.
Lui è un piccolo e, come tale, sa apprezzare le cose piccole. Le piccole meraviglie che il mondo ci dà la possibilità di osservare e che la nostra superbia non ci fa vedere, sempre alla ricerca di cose straordinarie.

Dio – tema centrale del libro – non può resistere ad un’anima umile. Per la sua umiltà, Ismaele merita non solo di sopravvivere al disastro, ma anche di raccontare la straordinaria (e ridicola) storia che ha vissuto. Complimenti piccolo grande Ismaele: hai scritto un immortale e gigantesco capolavoro.

Chiamiamoci Ismaele.

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