Anno 2014, pianeta Terra. Oramai tutta la mia sfrenata ricerca in fatto di musica è riposta all'interno di un software che dalla Svezia ha gentilmente invaso tutte le nostre abitazioni. Sì, è lui: Spotify, e le sue frotte di Artisti correlati, nel cui mar m'è dolce naufragar. E così, oramai, è come trascorro le mie giornate, di click in click, percorrendo meandri musicali che mi portano ad arrivare a pensare che forse anche il macellaio in fondo alla strada ha qualche suo pezzo caricatovi su.

E così, a volte, in questi viaggi attraverso lunghi tunnel cavernosi, si scova la luce. Sono partito da Ben Howard, e, dopo una ventina di click, ho trovato lui: Hide Vincent, e,  con associata a questo nome suggestivo, come presentazione, la copertina del suo album di debutto: un sensuale abbraccio di esseri umani fatti di fumo e carbone.  Sto parlando di "Imperfection", dieci tracce di variegati generi così ben amalgamati da apparire indistinguibili: Rock, sinfonica, elettronica, alternativa; un caldo pentolone di cose buone.
Mi sono fatto convincere un po' da tutto, dal nome dell'artista, dal nome dell'album e dal beige soffocato della copertina, e ho cliccato play alle top tracks. Quello che mi sono trovato davanti è stato un viaggio di quaranta minuti al di fuori del tempo e dello spazio, tra armonie dolci e amare, delicati tappeti di archi, ritmi morbidi, ma sempre vividi. Alla fine di tutto mi sono svegliato con un bagaglio di suoni in più, nel cuore e nel cervello.

Il brano che apre le porte di quest'avventura in musica è la title track: "Imperfection". Una traccia a metà tra l l'orchestrale e il cantautorale, accompagnata da arrangiamenti fatti ad hoc, con criterio e saggezza compositiva. Un contrabbasso tagliente ci spinge in un vortice da cui non è facile uscire, mentre una serie di loop ben giocati ci presenta quella che è la colonna portante di tutto il disco: la voce. Una voce calda e matura, consapevole e che nel corso del disco si sperimenterà in estensioni tonali mai azzardate, ma neanche mai scontate.
Insomma, in apertura quest'album ha tutte le carte in regole per farci proseguire.

Il brano che ci aspetta è "White Pictures of You". Non è uno dei brani che più mi hanno entusiasmato nell'intero album, ma è un po' come "quel classico lì che non muore mai". Un testo ben scritto e una linea vocale adeguata seguono una composizione non troppo elaborata, essenziale, minimale, ma funzionale nel complesso. Ciò che più spicca di questo brano è la delicatezza del tocco del pianoforte, suonato dall'autore stesso, e che in generale all'interno di tutto l'album, sembra essere lo strumento più intimo e opportuno.

A seguire, "All Your Days" è uno dei brani migliori del disco. Vivace e brillante, un'originale marcia, colorata da archi sempre movimentati e da una vocalità molto versatile e pulita. Si leggono in questa traccia numerose influenze, un arrangiamento che nasce dai più ripercorsi brani pop fino ad arrivare a toccare corde come quelle degli Smashing Pumpkins (che furono) o di una più recente Bat For Lashes.
"Plastic Bikes",  è un pezzo che di pezzi così non se ne sentiva da un po'. Quasi quattro minuti di voce e pianoforte, e nient'altro. Esecuzione pianistica mozzafiato e una voce che ti picchia in testa come una girandola. Poi, ho scoperto che è anche il primo singolo estratto dall'album, qui c'è il video: Plastic Bikes. Senza dubbi la mia preferita.

Il quinto brano è "The Constant", e sì, è proprio un riferimento a Lost, come ci suggerisce il prologo audio di qualche secondo estratto dalla stessa puntata della celebre serie tv. Questo è sicuramente il brano più rock del disco, per gli amanti del vecchio stile. Forse con delle strofe un po' troppo "soffocanti", ma ci pensa il ritornello ad aprire meglio il tutto. Per il resto, una buona canzone, ma niente di nuovo. Il sesto brano e il penultimo, relativemente "A Sunset Serenade" ed "Embrace", sono quelli che hanno più rimandi pop, ma stilisticamente sono ben distanti dal genere. Il primo è una ballata, molto interessante, con un basso fretless mozzafiato, e un paio di urla liberatorie nel reprise finale che non possono fare a meno di coinvolgere tutti i sensi. Il secondo, è forse il pezzo più povero del disco, ma senza dubbio, molto orecchiabile.

In "Cold Winter Suicide" ci troviamo di fronte al mondo dell'elettronica. Forse il brano più particolare dell'album, dove il pianoforte fa da leader, con tocchi semplici ma decisi. L'inserimento di cori femminili di una voce che sfiora tendenza liriche rende tutto surreale e da pelle d'oca. Un acuto finale e una martellata sui tasti del piano ci ributta nella realtà più cruda, quella dell'ottavo brano: "Brokenskins" (che è stato anche il primo che ho ascoltato su Spotify, essendo in cima alle top tracks), otto minuti di voce e chitarra, un'introspezione nel buio, una fiaba senza personaggi. Ci si perde per davvero nella purezza delle corde della voce di Hide Vincent e nella sua capacità di arrivare al profondo delle cose.

Il disco si chiude con una chitarra che per quaranta secondi riprende dei giri dell'Ave Maria di Schubert, dove delle parole ruvide e disperate ci lasciano sospesi in quest'universo, con la voglia di proseguire, in un album che sarebbe potuto essere infinito.

Il bottone del following sul profilo di quest'artista, da parte mia è già bello che cliccato. Artista che, durante le mie ricerche (che non sono state immediate, poiché si è rivelato essere ancora un artista tra quelli "emergenti") si è rivelato essere italiano. Due belle scoperte in una: musica che oggi esce fuori dalla massa, e perlopiù dal nostro paese. C'è da esserne fieri.

Bisogna supportare la musica emergente, perché ci sono volte, come questa, in cui ne vale davvero la pena.

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