Se qualcuno mi chiedesse perché Maboroshi no Hikari / Illusion (1995) è il mio film preferito mi troverei in serie difficoltà, e probabilmente la risposta sfumerebbe in un cupo mutismo. Eppure per me non sarebbe molto complicato riuscire a spiccicare qualche parola sui film che più mi hanno colpito nel corso degli anni: che siano di Lynch, Bergman, Von Trier, Coppola, Kubrick, Tarantino, oppure (spostandoci in oriente) Ozu, Kobayashi, Kurosawa, Mizoguchi, Oshima, Teshigahara, Wong Kar-Wai, Lee Chang-Dong, Kim Ki-Duk e via dicendo. Persino lo stesso Koreeda ha realizzato altre pellicole meravigliose dopo aver debuttato con questa (cito Wandafuru Raifu, Aruitemo Aruitemo e Daremo Shiranai, o anche il più recente e solare Kiseki), ma in nessun caso ne sono uscito col cuore così a pezzi, e con la stessa sensazione di vuoto protratta per giorni.

Il fatto è che in Maboroshi non succede quasi nulla, proprio come nei capolavori del maestro Ozu (chiara ispirazione per Koreeda); ma se almeno in Ozu potevamo affidarci alla loquacità e ai chiacchiericci dei personaggi, qui dovremo fare a meno anche delle parole per via dei dialoghi poco presenti, non per questo trascurabili. I pochi momenti salienti della trama ci vengono mostrati, se non solamente trasmessi, con quello che definirei un "distacco magnetico", un approccio non molto diverso da quello di Tsai Ming-Liang, sebbene non agli stessi livelli di autismo: Koreeda rappresenta distanze e incomprensioni sul piano individuale, per Tsai l'umanità intera è alienata, ma entrambi dipingono la realtà esterna con un'immobilità a dir poco affascinante.

Anzi, per chi è in grado di respirare a pieni polmoni l'atmosfera di questo film (e ci vogliono dei polmoni ben allenati!), è pure possibile percepire una pacatezza di fondo, una poesia silenziosa ma immanente, quasi epifanica, in ogni spazio e in ogni oggetto: dalla luce intermittente di un passaggio livello a una stanza vuota, da una corsa in bicicletta a uno sguardo perso nel vuoto, dal fragore delle onde al semplice suono di un campanellino. La vicenda si sviluppa seguendo un filo emotivo, pregna di simbolismo e tensione verso un "qualcosa" che solo raramente emerge in superficie definendo le svolte (se così possiamo chiamarle) principali, e che per tutto il tempo, senza un motivo particolare, lascia un gran magone.


Dicevo, l'esile trama può essere riassunta in poche righe: Yumiko, a seguito dell'inspiegabile suicidio del marito, si risposa col vedovo Tamio e si trasferisce col figlio piccolo in un villaggio costiero di Ishikawa. Il matrimonio combinato però, dopo un primo periodo di calma apparente, subisce una frattura: il ricordo del defunto Ikuo continua a tormentare la protagonista, che non riesce proprio a venirne a capo. Recuperando lo struggimento "al femminile" di Mizoguchi, la sobrietà imperturbabile di Ozu e anche un poco della proverbiale lentezza tarkovskiana, Koreeda dà vita a un dramma impalpabile, umbratile, squisitamente intimo nei contenuti quanto essenziale nella forma e nelle ambientazioni. Se il cinema è arte di scolpire il tempo, questo è un monumento piallato con rigore eccezionale: le memorie e i sogni ancora vividi e radicati, il presente che sfugge senza più una ragione, il futuro incerto ma accettato con rassegnazione in un finale dalla delicatezza insostenibile; è alla luce di tutto ciò che Maboroshi si definisce non più solo come un film sull'incomunicabilità e sul mistero della morte.


Dal punto di vista "tecnico" non c'è molto da dire. Le inquadrature sono perfettamente naturali, fisse, essenziali e contemplative (Ozu docet, ancora); l'occhio di Koreeda si fa spesso distante quasi come quello di un falco, ma non gli sfugge nulla. Suggestivi gli scorci dei quartieri di periferia, così come quelli meravigliosi del villaggio e del mare, che si fa specchio del tumulto interiore di Yumiko. La fotografia può lasciare interdetti inizialmente, ma la scarsa illuminazione contribuisce a dare quel tocco di maggior realismo e al contempo di indefinitezza, sempre in sintonia col mood generale. Gli attori non si scompongono, la recitazione è volutamente contenuta. Il ritmo latita in particolar modo nella parte centrale della storia, che per molti rischia di collassare nella noia; questo perché, nel bene o nel male, è un film che si prende il suo tempo per lasciar traspirare ogni emozione. Menzione speciale va alle musiche: sporadiche ma perfettamente collocate, delicate ma devastanti.


Sebbene la narrazione proceda senza sussulti e colpi di scena, non sono poche le immagini che mi sono subito rimaste impresse. L'ultimo, fugace incontro tra Yumiko e Ikuo, allontanati dall'eco di un campanellino; la partenza di Yumiko; il ricordo/sogno della nonna, scappata di casa senza un motivo quando la protagonista era bambina; la fabbrica deserta; il finale che sopraggiunge in sordina; ma quella della processione funebre e del conseguente crollo emotivo di Yumiko (e anche mio) è sicuramente la più straziante, e più bella, che abbia mai visto: come palesare l'incomunicabile, come sbriciolare il cuore in due minuti con un'inquadratura fissa sul mare. Non ci sono parole.


Come forse si sarà capito, Maboroshi non è per tutti i palati. Richiede calma, pazienza e qualche visione in più per cogliere dettagli magari prima trascurati. È il tipico film che si svela a visione ultimata, insinuandosi nello spirito soltanto nelle ore/giorni/settimane seguenti. È vero che siamo abituati a ben altri ritmi, alle percezioni immediate, alle conclusioni sicure o affrettate. Ma ogni tanto vale la pena fermarsi un attimo e prendersi il tempo di lasciar correre i pensieri senza una meta precisa, proprio come Yumiko.


Ecco, se qualcuno mi chiedesse perché questo è il mio film preferito mi troverei in serie difficoltà, e probabilmente la risposta sfumerebbe in un cupo mutismo. Oppure potrei fargli una recensione lunga, barbosa e dispersiva... Ma non riuscirei comunque a rendere la più vaga idea di quanto sia legato a questo capolavoro.

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