Una cosa è certa: il 2011 che sta per concludersi è stato l'anno della definitiva consacrazione per la trentaduenne pianista giapponese, ormai ex-astro nascente della nuova Fusion contemporanea ed entrata di diritto a far parte del ristretto novero dei migliori musicisti del genere. Parlano le eccezionali esibizioni dal vivo, per giunta sui palcoscenici dei maggiori festival Jazz internazionali (da Montreal a Newport a Umbria Jazz - purtroppo ultimamente un po' in declino), forse l'ambito prediletto dalla talentuosa strumentista; parlano le più che positive recensioni degli addetti ai lavori (superflua, peraltro, l'approvazione di certa critica, quando si ha la fortuna di essere scoperti da Chick Corea a soli diciassette anni); parla, infine, il suo ultimo album di studio, pubblicato il 7 giugno di quest'anno con la collaborazione di due fuoriclasse: il bassista Anthony Jackson (decine e decine le sue collaborazioni) e il batterista Simon Phillips, da tempo solista e session-man di Fusion ma familiare anche negli ambienti Rock per la sua militanza (fra gli altri) negli Who, nei Toto e nei Judas Priest. Due che non avrebbero bisogno di presentazioni, insomma: qui al fianco di Hiromi nel cosidetto "Trio Project", ultima esperienza della pianista fra Jazz e rivisitazione di sonate romantiche, a conferma della solidità della sua formazione classica.

Su Hiromi ci sono due scuole di pensiero: c'è chi ne apprezza le indiscutibili doti tecniche e la serietà professionale (né altrimenti la Nostra avrebbe potuto contare sull'appoggio di simili collaboratori) e chi invece trova la sua una proposta "fredda", scarsamente comunicativa, eccessivamente fondata sulla ricerca del virtuosismo fine a sé stesso e sulla fusione di influenze contrastanti, criticandone i dischi in quanto testimonianze esemplari di cattivo gusto e bravura "a sproposito"; e c'è, ancora, chi liquida la pianista di Hamamatsu descrivendola nei termini di un Emerson o di un Wakeman al femminile, cresciuta a pane e Dream Theater e incapace di confrontarsi - artisticamente parlando -  con i grandi del suo genere. Da parte mia, dico che un album come "Voice" non costituisce di certo il massimo dell'originalità: la formula del trio piano/basso/batteria è (almeno in ambito jazzistico) vecchissima, e quanto si ascolta qui non è così distante da analoghi esperimenti condotti con successo negli anni ottanta (vedi il trio Satoh/Gomez/Gadd di cui vi ho parlato qualche tempo fa); e non nego che molti potranno trovare questo album irrimediabilmente noioso e prolisso, considerata anche l'estensione a cui i pezzi sono sottoposti, tutti della durata superiore ai cinque minuti. E al di là delle parole più o meno condivisibili della stessa Hiromi, che parla della sua musica come "un qualcosa che si trasmette da cuore a cuore, e non dalle sue dita all'orecchio degli ascoltatori: questa è l'essenza della musica strumentale intesa come veicolo di passioni cui dar voce", io ritengo che il senso dell'ascolto di quest'opera sia da ricercare proprio nel virtuosismo, nelle progressioni strumentali, nelle scale eseguite a velocità "robotica": pretendere di confrontarsi con un album di Hiromi sperando di non incontrare virtuosismi è come ascoltare un'opera Punk pretendendo di non ascoltare rumore. Nel senso che il virtuosismo è l'elemento fondante della sua musica, la sua cifra distintiva, quel dato imprescindibile senza il quale Hiromi non sarebbe Hiromi; lasciando da parte le - inutili, a mio modo di vedere - osservazioni circa l'innegabile derivatività della proposta (ma è ancora possibile dire qualcosa di nuovo in termini di Fusion? Se lo è, il "nuovo" non riguarderà di certo la sostanza musicale in sé, tanto più che il Jazz vive di "corsi" e "ricorsi", e per sua stessa natura è portato ad alimentarsi del passato; riguarderà invece l'individualità, il gusto, la personalità dei singoli musicisti, la loro capacità di mettersi in discussione e di farsi apprezzare dal pubblico per ciò che sanno trasmettere, senza stare a guardare se un brano, piuttosto che un altro, è più o meno originale o derivativo).

Personalità e classe (oltreché straordinaria presenza scenica) sono qualità che da sempre appartengono alla giapponese, qui alle prese con nove composizioni che ne esaltano  la sensibilità e la genialità in termini di arrangiamento; sono partiture complesse, straordinariamente intricate, a tratti capaci di superare il tradizionale canovaccio "esposizione del tema-assolo sul tema"; difficile dunque orientarsi ad un primo ascolto, salvo cogliere immediatamente le fantasiose e brillantissime soluzioni apportate da Jackson e Phillips (ma non serviva certo averne conferma). Nelle vorticose trame della leader si intuisce la grande influenza su di lei esercitata dal maestro riconosciuto Ahmad Jamal (suo mecenate ai tempi della frequentazione del Berklee College di Boston). Sapori progressivi si mescolano al Rhythm'n'Blues, progressioni sensazionali si susseguono sostenute dalla batteria, fino alla delicata rilettura in chiave Jazz della "Patetica" (Sonata N.8) di Beethoven; persino io, che non sono un amante di questo genere di cose e avrei fatto volentieri a meno di questa appendice classicheggiante (anche perché il disco non aveva bisogno di altro), ho apprezzato la vena più romantica di Hiromi e il suo saper evitare certa banale scolasticità (in cui è quasi naturale precipitare, quando si affrontano simili repertori).

Sarò sincero: in principio volevo dare all'album un 4,5 (magari arrotondando per difetto a 4), ma questa è musica suonata troppo, troppo bene (e con troppa carica emotiva, per chi sa coglierla) da non meritarsi un 5 pieno. Anche se da due mani del genere, devo ammetterlo, mi aspetto in futuro cose ancora migliori... 

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