Il nostro volto ci rende ciò che siamo? E se la stessa persona avesse un volto diverso, sarebbe comunque sè stessa o completamente diversa?
Queste sono solo un paio delle domande che Hiroshi Teshigahara pone a sè stesso e a noi spettatori in questa perla sfortunatamente caduta nel dimenticatoio, The Face of Another. La trama è abbastanza semplice: in seguito ad un incidente sul lavoro, Okuyama si ritrova con il volto completamente ustionato. Ciò lo costringe ad indossare delle bende, rendendo i suoi rapporti interpersonali molto complessi e diversi da come erano un tempo. Per questo motivo, per tornare a vivere una vita "normale", chiede ad uno psichiatra, Hari, di costruire una maschera realistica che gli restituisca delle fattezze normali. Parallela a questa linea narrativa è quella di Irie, una bellissima ragazza con mezzo volto sfigurato dalla bomba atomica (deducibile da alcuni flashback).
Con questo film, dalle atmosfere allucinate e, a tratti, parecchio angoscianti, degne del miglior David Lynch, Teshigahara analizza la natura dell'identità e come questa si riflette sulla società e ci regala uno dei più bei film sulla diversità (mi viene da paragonarlo solo a "The Elephant Man" del succitato Lynch). In questa attenta analisi su come l'apparire possa condizionare e modificare la psiche dell'individuo, una delle citazioni più emblematiche è, senza dubbio, la seguente:
Ti sei abituato alla maschera o è la maschera ad essersi abituata a te?
Come se la maschera che Okuyama indossa per riassaporare la libertà che l'incidente gli ha rubato potesse in qualche modo impossessarsi della sua personalità. In fondo, il tema dell'identità è uno degli argomenti fondamentali del dibattito filosofico Novecentesco e già Pirandello ne aveva ampiamente parlato. Ora, non voglio in alcun modo affermare che Teshigahara conoscesse Luigi Pirandello, ma in questo film si notano dei possibili punti di contatto tra i due.
"Guai a giocare con le maschere!", sembra dirci il regista. Infatti, in entrambi i filoni narrativi, i due protagonisti provano a negare le proprie maschere: Okuyama nel momento in cui, dopo aver corteggiato sua moglie celandosi dietro una falsa identità e averla portato a letto, le rivela la sua vera identità di cui, però, lei era perfettamente a conoscenza; Irie, invece, quando fa l'amore con suo fratello, l'unica persona al mondo che le dica che è bellissima nonostante il volto parzialmente deturpato. Entrambi provano a eliminare la propria maschera ma in questo modo scatenano una forza superiore a tutte: la morte (omicidio o suicidio, poco importa). Entrambi gli episodi culminano, infatti, in una morte. Una volta che si entra nel gioco delle maschere, solo in un modo è possibile uscirne.
Aldilà delle questioni psicologico-filosofiche, è da elogiare la qualità registica di Teshigahara, abilissimo nell'utilizzo dei long takes, che muove la camera nei modi più disparati, un vero e proprio sperimentatore, coadiuvato da una fotografia a dir poco spettacolare, con un bianco e nero che lascia pochissimo spazio alle sfumature, ed una colonna sonora che si alterna tra musiche minimali ed ampi waltzer. Geniale anche l'utilizzo della colonna sonora, con i suoni d'ambiente raramente udibili, come a voler mettere in ulteriore evidenza la solitudine dei protagonisti che, anche quando sono in mezzo alla folla, son comunqie isolati.
Non mi dilungo oltre, lascio a voi qualsiasi ulteriore analisi come invito a recuperare in ogni modo possibile questo capolavoro. Anzi, questo Capolavoro. Con la 'c' maiuscola. Uno dei più bei film surrealisti che mi sia capitato di vedere, un film capace di shockare, di far riflettere ed emozionare come pochissimi altri.
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