La notte del 22 settembre del 1997 a Bentahla, un villaggio alla periferia di Algeri, un gruppo di terroristi islamici, nel pieno dell'ultima guerra civile algerina, riuscirono ad eliminare, senza alcuna forma di opposizione, almeno 500 persone tra cui molti anziani e bambini, sterminati con bombe rudimentali, sgozzamenti e altre atrocità simili.

Oum Saad è una delle tante madri di famiglia che sopravvive in una grotta, e costretta, inoltre a convivere quotidianamente con i conflitti fratricidi che per anni hanno insanguinato il tetto dell'Africa. Paradossalmente in arabo il suo nome significa "Madre della Felicità". Quando la vita è carogna.

Il giorno dopo la notizia inizia a circolare, stendendosi come un sudario sulle famiglie ancora all'oscuro di quanto accaduto poche ore prima. Oum ha appena saputo della morte del fratello, della suocera e della nipote. Con un grumo di veleno incastrato nel collo, indossa il primo straccio che si ritrova tra le mani e sale, accompagnata da una parente, Zobeida, sul primo mezzo che si dirige a Bentahla. Dopo aver superato difficoltosamente alcuni posti di blocco ed altri ostacoli, giunge in un posto che si può facilmente paragonare ad un girone infernale. Centinaia di anime urlanti in cerca di notizie sui familiari uccisi, percorsi obbligati per evitare di calpestare mine precedentemente piazzate, corpi mutilati accantonati ai lati delle strade. I terroristi non hanno risparmiato nessuno. Oum prosegue tra le bolge in cerca dei corpi dei familiari da seppellire. La conducono in una scuola adeguata a obitorio, nel tentativo di riconoscere qualcuno ma non è facile. E' difficile reggere di fronte a tanto orrore. Zobeida che, forse, ha lo stomaco più forte, cerca di calmarla e la prega di non urlare alla vista dei cadaveri. Come se fosse una cosa normale.


Tra le file di cadaveri riconosce il fratello. Le si annebbia la vista e i sensi cominciano a cedere. Un poliziotto la sorregge e la invita a sciacquarsi il viso. Le lacrime stanno tentando di espugnarle gli occhi ma lei resiste, ancora un po'. Come si può resistere di fronte a mucchi di arti mutilati, corpi carbonizzati, decapitati. Si può immaginare un inferno peggiore? Con quel briciolo di coraggio rimastole chiede informazioni per avere i corpi e degnarli almeno di una sepoltura. Lo stesso agente che l'aveva accompagnata ai bagni le indica di recarsi all'ospedale di El Harrash. Lì incontra Abdel Fattah, un nipote uscito indenne dal massacro, che forse, per quanto possibile, le dona l'unica notizia meno dolorosa. Se così si può dire. I corpi erano stati già trasportati al cimitero per la sepoltura e nessun cadavere dei loro cari era andato disperso.

Oum crolla sulle ginocchia, si appoggia ad una parete rivestita da piastrelle chiare, e mentre Zobeida cerca di adagiarla, inclina leggermente il capo ed emette quell'urlo di disperazione che ha toccato ogni angolo del globo terrestre. Hocine Zaourar è un fotografo di guerra e cerca di accalappiare quante più immagini possibile in quel caos funereo. Ed è in quel momento che mentre il dolore abbatte con relativa lentezza Oum, ha il tempo di scattare quella foto che miscela commozione e strazio. Subito dopo il paradosso. Quando la sorte si accanisce.

La foto viene immediatamente distribuita alle maggiori emittenti televisive e la France 2, la attribuisce erroneamente ad un'altra notizia concernente una madre che ha perso otto figli nella strage. Il panico e la menzogna hanno regnato egemoni fino a quando la televisione algerina non ha sfatato grossolanamente il macabro mito. L'ignoranza e il bigottismo ha fatto il resto. C'è chi accusa Oum di strumentalizzazione lucrosa e ciò induce la gente ad evitarla, a demonizzarla. Mentre il fotografo ha fatto la sua fortuna. Se è possibile tutto questo.

Ad ogni modo quell'urlo straziante trafigge il cuore. Quella disperazione o, se si può, liberazione fa ancora male. E Oum, ne soffre ancora mentre rivolge uno sguardo commosso alle foto dei familiari perduti. Nella sua grotta.

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