Questo album, registrato alla Caroline Records e uscito per l’indipendente City Slang, fece conoscere le Hole alla scena underground americana che a quei tempi preparava la sua rivalsa, e anche se questa avvenne più che altro in termini commerciali, non fu però priva di autenticità e originalità, cose che anzi costituirono la principale caratteristica dell’era grunge. Spesso, secondo me a torto, si assimilano le Hole alle ‘riot grrls’, movimento nato in seno al grunge, di cui si fecero portatrici bands come le Bikini Kill della mitica Kathleen Hanna o le L7 della hardcoriana Donita Sparks…ma a ben sentire, le Hole, dal punto di vista musicale, sono qualcosa di estremamente diverso, qualcosa di molto più complesso e sentito rispetto alle grida starnazzanti di una Kathleen Hanna o alle assurdità liriche di una Donita Sparks. O almeno, così promettevano agli esordi della loro carriera, sbocciata sotto gli auspici più favorevoli ad opera di una tale Kim Gordon, bassista dei Sonic Youth, gruppo indipendente, fondamentale per la formazione delle allora nuove leve…c’è chi li definisce “genitori del grunge”. La fiducia di Kim Gordon in Courtney Love e la sua banda non era certo infondata…del resto, il talento era innegabile. L’album che ne esce fuori è un album che “si nutre di fastidio”…dalla prima all’ultima traccia è un’unica cantilena che si ripete infinitamente, che disturba…zero melodia e tutto noise alla Sonic Youth.
Non ci troviamo di certo di fronte ad un album facile da ascoltare…e se è per questo, nemmeno piacevole, anzi dà un senso di soffocamento nelle sue disarmanti frasi e nei suoi distorti giri di chitarra che rivelano la presenza di un musicista di indubbia bravura, Eric Erlandson. Il suono è pervaso da un senso di angoscia, di attesa di un momento opportuno e allo stesso tempo di impazienza. La musica è la totale riproduzione dei pensieri espressi. È “odio pieno”, è alienazione. Alienazione che diventa denuncia. Denuncia verso un sistema nel quale non ci si riesce e non ci si vuole riconoscere. Ma non c’è niente di estremamente palese…tutto è estremamente allegorico, anche quando la canzone ha il titolo di “Teenage Whore” o “Garbadge Man”.
L’assenza di melodia tradisce il senso di straniamento di fronte ad una realtà, molteplice nelle sue sfaccettature, che è ridotta ad uniformarsi sotto lo spersonalizzante impatto delle convenzioni sociali. E Courtney, ottima voce, forse la migliore voce femminile del rock, canta di un’autenticità corrotta, di un’innocenza venduta, di un candore sbiadito, di un suono disturbato, di una musica che ci sconvolge ma è finita, della totale e purtroppo necessaria assenza di rispetto, pace, amore, empatia, tra le persone.
Un album sincero, spontaneo, autentico, senza compromessi, probabilmente poco perfezionato, poco maturo dal punto di vista compositivo, una sorta di abbozzo. Sicuramente l’abbozzo delle migliori idee che vi siano mai venute in mente.
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