Se il mio padrino fosse Boy George, sicuro che una discreta (...) parte della mia educazione musicale il Reggae ce l'avrebbe. Sicuro. Perché nel Club di Mr.George O'Dowd il Reggae non è mai mancato. E neanche recitava il ruolo del comprimario, alla resa dei conti.
Ma se avessi sangue giamaicano nelle vene, sicuro al tempo stesso che il Reggae ce l'avrei dentro molto più di Boy George. O quantomeno, dentro i tempi in levare ci sguazzerei parecchio meglio.
E se mio padre fosse Paul Cook (e dico PAUL COOK, il biondo che pestava i tamburi dietro a Johnny Rotten quando strillava come un ossesso), potrei anche entrare a far parte delle Slits trent'anni dopo e infilare in un mio disco il mio personale tributo a quella grandissima coi dreadlocks che nelle Slits ci cantava: "tale" Ari Up...
Hollie Cook non ha dovuto scegliere, fra le tre opzioni. E non più di pochi mesi or sono m'ha anche regalato questo suo nuovo gioiellino di tropical pop prodotto da Mike "Prince Fatty" Pelanconi. Copertina che pare la traduzione in fumetto di certi pezzi d'arte creola che portai con me sul volo di ritorno dalla Martinica. E canzoni che paiono l'equivalente in suoni di quei colori.
E quando le copertine parlano chiaro, puoi dire di cominciare ad ascoltare un disco ancor prima di metterlo nel lettore.
Il remix-dub dell'esordio di tre anni fa ha dato più frutti dei palmeti immortalati nel video di 'Postman'. I bassi dicono la loro, la vena-pop resta intatta, i pezzi filano che è un piacere. Irresistibili, con un tocco vintage. E una discreta orchestra aggiunge vaghi sapori moroderiani da Disco-anni '70. Quel pizzico di Brasile portato dalle percussioni, e un restante 90% di Giamaica tutto chitarre stoppate e seducenti pigre cadenze.
Se siete fra i puristi che cercano un suono "roots" da plantation songs e dintorni, ci rimarrete maluccio. Se siete di quelli che hanno adorato le contaminazioni di un Peter Tosh ai tempi della Rolling Stones Records (ah, i vinili con la linguaccia rossa su sfondo giallo al centro, quelli che si riconoscevano all'istante...), allora questo fa per voi. E per "voi" intendo chi adorava il suono della batteria di Sly Dunbar (anche quello, sì, se pure non lo riconoscevi all'istante non ci mettevi poi molto...) e ha imparato a distinguerlo dal suono di qualsiasi altra batteria. Quel suono ha fatto scuola ovunque, ma già lo sapevamo. A quanto pare, ha fatto scuola anche da queste parti.
Poi c'è che lei è perfetta, come interprete. Dettaglio, sì. Ma senza certi "dettagli" non starei qui a parlare di quanto è piacevole un disco come Twice. Forse, anche qualcosa in più che "piacevole". Ma sì.
E in questo finale di un 2014 in cui avrò sentito una manciata appena di roba nuova, e ho una svogliatezza tale da non essere ancora riuscito nemmeno a far partire il singolo dei Pink Floyd su YouTube (ah, è uscito materiale a nome "Pink Floyd"...?), c'è questa giamaicana del West End che ha l'aria d'essere anche una discreta coltivatrice, e che mi prende. E che fare, a 'sto punto...?
Mi lascio prendere.
E poi è la figlia di Paul Cook. Oh, dico: PAUL COOK.
Ah. Questo l'avevo già detto.
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