Nel gelo e nel buio del Nord-Europa, si diceva, si sta osservando negli ultimi tempi il proliferare di un fenomeno di rinascita post-punk a cui si legano uscite decisamente degne di nota. Se a me piace identificare questo movimento con i danesi Iceage ed in particolare con il loro secondo lavoro “You’re Nothing” dello scorso anno (a mio parere un vero caposaldo della nostra era), è anche vero che Elias Ronnenfelt e compagni non sono gli unici credibili alfieri di questa nuova schiera di nichilisti del terzo millennio (anni che, quanto a merda e disillusione, per adesso non hanno niente da invidiare a quel lustro a cavallo fra i settanta e gli ottanta che ha dato i natali prima al punk e poi alle sue derivazioni post).
Fra i rivali più insidiosi, capaci di contendere la leadership alla compagine di Copenhagen, indichiamo sicuramente gli svedesi Holograms, che pure loro nel 2013 se ne uscivano con un notevole secondo album: quel “Forever” che in un sol colpo annientava, facendolo dimenticare, lo scialbo debutto, e portava i Nostri all’attenzione dei riflettori, grazie anche ai riflessi dell'ascesa dei “cugini” danesi.
In confronto ad altre formazioni dedite a sonorità analoghe, i quattro di Stoccolma sono forse meno originali, tanto che potremmo definire il loro approccio scolastico: l’armamentario imbastito si muove indubbiamente fra le fronde e le minacce di quella giungla urbana creata ad arte dai primissimi Killing Joke; gli umori richiamati sono quelli dei Cure del classico binomio “Seventeen Seconds”/”Faith”: ed infatti il basso, fra il ritmico e il melodico, è pari pari quello di Simon Gallup, mentre l’urlo metallico, guarda caso, echeggia sordo come quello di un giovanissimo Robert Smith; il fragore e la potenza della chitarra, infine, è mutuato direttamente da certo death-rock di oltre oceano. Eppure, nonostante gli inevitabili rimandi, la musica di questi fottuti Ologrammi è dannatamente efficace.
Data l’urgenza punk della proposta, essi funzionerebbero bene anche solamente come terzetto (Andreas Lagerstrom al basso ed alla voce, Anton Spetze alla chitarra e alla seconda voce, Anton Strandberg alla batteria), ma certo non ci dispiacciono, qua e là, le spennellate di sintetizzatori ad opera di Filip Spetze, inserti e contorno che conferiscono al tutto un’aura glaciale che butta nel calderone anche un pizzico di coldwave. Lo spudorato romanticismo della bella copertina, che incornicia in uno sfondo rigorosamente in nero il “Dante e Virgilio” del pittore francese William Bouguereau, se da un lato incarna il mood epico e decadente che pervade l’opera, dall’altro è fuorviante in quanto i suoni scarni e l’attitudine irriducibilmente in-your-face richiamerebbero ben altro tipo di iconografia.
Ed allora partiamo subito con “A Sacred State”, dinamitardo pezzo d’apertura che ci investe con la forza d’urto di una sezione ritmica travolgente e di una urticante voce baritonale prodiga di stecche e difetti di pronuncia (quasi comico lo scalcinato “furevaaaaaa” gridato nell’irresistibile ritornello). Quali dunque i punti di forza di “Forever”? Un corpus sonoro compatto e conturbante, dove si segnala la saettante prestazione dietro alle pelli di un infaticabile Strandberg (che nel finale della composita “Flesh & Bone” accenna persino un blast-beat!) ed una efficacia sorprendente nel sapere cucire, in rapida successione, strofe incisive e ritornelli sempre azzeccati: il tutto condensato nei classici tre/quattro minti che ovviamente non concedono grandi variazioni sul tema, ma nemmeno precludono un timido sviluppo all’interno dei singoli brani, che ambiscono a distinguersi l’uno dall’altro .
Tutti gli episodi dunque valgono, ma certamente a svettare sono la quarta traccia (una orecchiabile “Attestupa”, contraddistinta da solidi tempi medi, tastiere ben in evidenza ed un ritornello che ti si stampa immediatamente nel cervello) e l’ottava (la trascinante “Laughter Breaks the Silence”, che evoca gli epici Cure di “From the Edge of the Deep Green Sea”, finendo per sfiorare il pathos dei Sisters of Mercy più plateali). Solo in occasione di “Wolves” e della conclusiva “Lay Us Down” si alza per un attimo il piedino dall’acceleratore, con – a mio parere – risultati non esaltanti (in particolare nel secondo caso), dato che l’impressione è che questi due brani ariosi e dall’anthemico procedere, non senza forzature alla ricerca di uno status di inno generazionale, siano un atto dovuto al fine di rispettare certi cliché del genere, o più semplicemente per rompere la monotonia.
Una monotonia che in realtà non esiste, considerato che i quattro musicisti danno il loro meglio proprio quando decidono di correre senza freni: certo, la loro musica non trasuderà quella autenticità, quel disagio esistenziale vibrante ed incandescente che emanano certe creazioni dei rivali Iceage, ma ciò non toglie che, per chi fosse tremendamente affascinato da questa nuova ondata di giovini band dedite al post-punk, “Forever” rimane incontestabilmente un passo obbligato.
Fra i rivali più insidiosi, capaci di contendere la leadership alla compagine di Copenhagen, indichiamo sicuramente gli svedesi Holograms, che pure loro nel 2013 se ne uscivano con un notevole secondo album: quel “Forever” che in un sol colpo annientava, facendolo dimenticare, lo scialbo debutto, e portava i Nostri all’attenzione dei riflettori, grazie anche ai riflessi dell'ascesa dei “cugini” danesi.
In confronto ad altre formazioni dedite a sonorità analoghe, i quattro di Stoccolma sono forse meno originali, tanto che potremmo definire il loro approccio scolastico: l’armamentario imbastito si muove indubbiamente fra le fronde e le minacce di quella giungla urbana creata ad arte dai primissimi Killing Joke; gli umori richiamati sono quelli dei Cure del classico binomio “Seventeen Seconds”/”Faith”: ed infatti il basso, fra il ritmico e il melodico, è pari pari quello di Simon Gallup, mentre l’urlo metallico, guarda caso, echeggia sordo come quello di un giovanissimo Robert Smith; il fragore e la potenza della chitarra, infine, è mutuato direttamente da certo death-rock di oltre oceano. Eppure, nonostante gli inevitabili rimandi, la musica di questi fottuti Ologrammi è dannatamente efficace.
Data l’urgenza punk della proposta, essi funzionerebbero bene anche solamente come terzetto (Andreas Lagerstrom al basso ed alla voce, Anton Spetze alla chitarra e alla seconda voce, Anton Strandberg alla batteria), ma certo non ci dispiacciono, qua e là, le spennellate di sintetizzatori ad opera di Filip Spetze, inserti e contorno che conferiscono al tutto un’aura glaciale che butta nel calderone anche un pizzico di coldwave. Lo spudorato romanticismo della bella copertina, che incornicia in uno sfondo rigorosamente in nero il “Dante e Virgilio” del pittore francese William Bouguereau, se da un lato incarna il mood epico e decadente che pervade l’opera, dall’altro è fuorviante in quanto i suoni scarni e l’attitudine irriducibilmente in-your-face richiamerebbero ben altro tipo di iconografia.
Ed allora partiamo subito con “A Sacred State”, dinamitardo pezzo d’apertura che ci investe con la forza d’urto di una sezione ritmica travolgente e di una urticante voce baritonale prodiga di stecche e difetti di pronuncia (quasi comico lo scalcinato “furevaaaaaa” gridato nell’irresistibile ritornello). Quali dunque i punti di forza di “Forever”? Un corpus sonoro compatto e conturbante, dove si segnala la saettante prestazione dietro alle pelli di un infaticabile Strandberg (che nel finale della composita “Flesh & Bone” accenna persino un blast-beat!) ed una efficacia sorprendente nel sapere cucire, in rapida successione, strofe incisive e ritornelli sempre azzeccati: il tutto condensato nei classici tre/quattro minti che ovviamente non concedono grandi variazioni sul tema, ma nemmeno precludono un timido sviluppo all’interno dei singoli brani, che ambiscono a distinguersi l’uno dall’altro .
Tutti gli episodi dunque valgono, ma certamente a svettare sono la quarta traccia (una orecchiabile “Attestupa”, contraddistinta da solidi tempi medi, tastiere ben in evidenza ed un ritornello che ti si stampa immediatamente nel cervello) e l’ottava (la trascinante “Laughter Breaks the Silence”, che evoca gli epici Cure di “From the Edge of the Deep Green Sea”, finendo per sfiorare il pathos dei Sisters of Mercy più plateali). Solo in occasione di “Wolves” e della conclusiva “Lay Us Down” si alza per un attimo il piedino dall’acceleratore, con – a mio parere – risultati non esaltanti (in particolare nel secondo caso), dato che l’impressione è che questi due brani ariosi e dall’anthemico procedere, non senza forzature alla ricerca di uno status di inno generazionale, siano un atto dovuto al fine di rispettare certi cliché del genere, o più semplicemente per rompere la monotonia.
Una monotonia che in realtà non esiste, considerato che i quattro musicisti danno il loro meglio proprio quando decidono di correre senza freni: certo, la loro musica non trasuderà quella autenticità, quel disagio esistenziale vibrante ed incandescente che emanano certe creazioni dei rivali Iceage, ma ciò non toglie che, per chi fosse tremendamente affascinato da questa nuova ondata di giovini band dedite al post-punk, “Forever” rimane incontestabilmente un passo obbligato.
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