Questo sì che è un disco come si deve. Questo sì che è grande jazz, moderno (1959 ma quanto suona fresco!), avanzato ma apparentemente semplice. Già, perchè lo stile di Horace Silver è solo apparentemente semplice, ma nasconde sotto concezioni armoniche d'avanguardia. Valga come esempio "Peace", ballata costituita inusualmente da 10 battute, nella quale il quintetto interpreta una progressione piena di sostituzioni e dissonanze in maniera folgorante, trasfigura le note in pura emozione, dal tema che è tutto un programma fino agli incredibili quadri dipinti dalla tromba di Blue Mitchell. Immagini talmente meravigliose da oscurare i bozzetti un po' naif del leader, sempre inventivo e geniale anche se questa volta un po' in ombra (ma solo se confrontato con quello sconfinato oceano di colori, immagini ed ispirazione che è Mitchell).

Non che Blowin' The Blues Away possa essere descritto citando solo "Peace"! Non di sole ballate si nutre il jazzman. Il disco si apre con la title-track che, forte di un tema suonato all'unisono dai fiati (reminescente del jazz per orchestra), riesce senza difficoltà a scacciare via il blues, quell'indescrivibile stato d'animo misto di tristezza e auto-incoraggiamento tipico dei neri d'America.  Scatenato Horace che traccia qui il paradigma dell'eloquenza bluesy, scatenati i fiati con ancora un grande Blue Mitchell e un ancor più grande Junior Cook che, partendo dalle ultime note del tema, prorompe in bordate di esuberanza da restarci secchi. Due musicisti sottovalutati, complementari l'un l'altro, come dimostra il breve botta e risposta prima del tema finale: tromba e tenore che si spintonano per un po' di spazio e sotto la ritmica a conciliare e riconciliare.

Non che Blowin' The Blues Away possa essere descritto citando solo "Blowin' The Blues Away"! Ma sarebbe troppo pesante descrivere ogni brano, ci sarebbe molto e niente da dire, come sempre quando si parla di jazz, come sempre se si parla di musica (in fondo, meglio ballare d'architettura, no?).

Ma sarebbe comunque ingiusto non citare l'estro solistico di Silver che si manifesta nelle due esecuzioni in trio, "The St. Vitus Dance" e "Melancholy Mood". O ignorare l'energia sprigionata da "Break City" e dalla più famosa "Sister Sadie", o non parlare del sentore orientale che pervade "The Baghdad Blues", caratterizzato da ingegnose trovate d'arrangiamento (il piano sulle ottave più basse durante l'esposizione del tema) ed emblema della nota apertura di Horace alle culture altre (basterà citare titoli come "The Cape Verdean Blues", "The Tokyo Blues", "Calcutta Cutie").

Siamo di fronte a un capolavoro, considerato fra i migliori dischi di Horace Silver. Accompagnato dal quintetto in formazione classica (Blue Mitchell, Junior Cook, Gene Taylor e Louis Hayes) il Leader esprime qui il suo incredibile talento, mostrando molte delle tipicità del suo modo di concepire la musica.  Ho prima scritto "accompagnato"? Errore, perchè gli altri musicisti non sono solo "gli altri musicisti", sono parte integrante e fondamentale di un discorso che parte sì da Silver ma che viene poi caratterizzato e completato da tutto il quintetto insieme.

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