"Tàin" (da scriversi rigorosamente con l'accento sulla "a") è gaelico e significa "furto", "razzia". Ed ogni irlandese che si rispetti è solito usare questo termine in riferimento al cosiddetto "Tàin Bò Cùailnge" (letteralmente: "la razzia del toro di Cooley"), che è qualcosa che appartiene all'immaginario popolare d'Irlanda almeno quanto il trifoglio nazionale o il culto di San Patrizio; trattasi infatti di una delle più note e celebri saghe della letteratura celtica pre-cristiana, non un poema epico (come pure - erroneamente - si è usato riferirsi ad esso), ma il leggendario racconto, per la maggior parte redatto in prosa, della guerra mossa contro l'Ulster da Medb, avida e crudele regina del Connacht (contea occidentale dell'attuale Repubblica d'Irlanda), e da suo marito Ailill. Tradizione vuole che a motivo dell'aspra contesa vi fosse un toro straordinariamente prestante di nome Dunn, di proprietà di un fattore dell'Ulster, che la regina intendeva sottrarre ai "cugini" rivali infliggendo loro una sconfitta simbolica, ancor prima che militare (il toro è simbolo archetipale di forza, potenza e dominio). Nel suo inarrestabile e minaccioso incedere, l'esercito invasore approfittò di una micidiale epidemia diffusasi fra i soldati dell'Ulster, probabile conseguenza di una maledizione divina, e guadagnò terreno senza di fatto incontrare resistenza alcuna. L'unico ad opporsi, ergendosi a baluardo difensivo della propria patria, fu un solitario eroe, l'appena diciassettenne Chùchulainn, che uno ad uno sconfisse in duello i campioni del Connacht, salvando così il destino dell'Ulster (pur non potendo evitare, caro prezzo della vittoria, che la regina Medb riuscisse nella cattura del tanto desiderato toro).
Un motivo d'ascendenza mitica simbolicamente riutilizzato dal patriottismo nazionalista irlandese d'ogni epoca, specie dopo lo scoppio della guerriglia urbana anti-britannica nelle città dell'Irlanda del Nord. Ma in pochi sanno che il "Tàin" è stato anche, nel 1973, l'ideale riferimento ispiratore di una superba, irraggiungibile pagina di Folk-Rock celtico a sfondo concettuale, capolavoro assoluto di una misconosciuta quanto ineguagliata formazione irlandese, espressione di una poetica fortemente politicizzata, militante, densa di abbondanti implicazioni extra-musicali. Non è un caso che gli Horslips (denominazione derivata dall'Apocalisse) siano stati, in quegli anni così drammatici per l'Irlanda, apertamente boicottati dal mercato discografico britannico e americano, perché sospettati - ma senza conferma - di appoggiare economicamente l'ala più estrema e stragista dell'IRA. Feroce la critica inglese, che snobbò l'eppure geniale proposta del gruppo etichettandolo come "l'ennesima, pedestre imitazione dei Jethro Tull" (un po' sul modello degli Steeleye Span "seconda maniera"), adducendo a pretesto soprattutto l'uso del flauto, che pure non caratterizza "in toto" il sound così vario e mutevole degli Horslips.
Questa band può invece vantare una non lunga ma assai significativa, brillante carriera nell'ambito di certo Folk elettrificato; non privo, a tratti, di sanguigne venature di furioso Hard chitarristico, che agli ascoltatori più attenti ricorderanno qualcosa dei Gentle Giant (i Gentle Giant dell'esordio, soprattutto). Album eccelsi, quelli degli Horslips, specie quelli del primo periodo, sovente votati alla filosofia tipicamente progressiva del "concept": album pervasi e resi magici da alchimie sonore complesse, ricercate eppure magnificamente appassionanti, e da composizioni suggestive, dall'architettura composita e dalle atmosfere spesso cupe, misteriose, tipicamente "nordiche". Stupisce la familiarità profonda, filologicamente impeccabile, quasi anacronistica con moduli ritmici del tutto sconosciuti al Rock e appartenenti invece alla plurisecolare tradizione irlandese: frequente è il ricorso al 9/8 caratteristico di forme di ballo popolare come il "jig" o il "reel". Contaminazioni ardite, non apprezzate dai puristi del "traditional" più canonico, e sovrapposizione di più strati timbrici differenti concorrono alla definizione di un sound originalissimo, nonostante i doverosi ma non troppo appariscenti debiti nei confronti del coevo Prog inglese: la chitarra selvaggia di Johnny Fean, giovanissimo folgorato da Hendrix e Clapton come altri suoi connazionali, è qualcosa che tutti gli amanti del Rock di quegli anni dovrebbero saggiare, fra virtuosismi e linee insolite, difficili e anti-convenzionali, un po' sul modello del grande Gary Moore con gli Skid Row. Al flauto e alle tastiere c'è Jim Lockhart, il paroliere; al basso Barry Devlin, che prima di intraprendere (quasi per caso) la carriera di musicista aveva studiato al seminario; l'inglese Charles O' Connor (originario di Middlesbrough) si destreggia al violino e al mandolino, creando splendidi intarsi ideali per i momenti più posati, più riflessivi; dietro la batteria siede l'agile Eamon Carr.
In "The Tàin" (seconda prova degli Horslips) sono rielaborati, con gusto e sempre presente spirito nazionalista, i discorsi dei singoli protagonisti della saga: trasognati e profondissimi squarci di umanità, liberi pensieri e sensazioni varie di eroi incerti, sofferenti, titubanti, perennemente lacerati dal dubbio e (strano a dirsi per degli eroi) dalla paura e dal rimorso; sono figure che si ergono pensose e solitarie fra manieri e campi di battaglia, soggetti al tumultuoso fluttuare dell'anima e alle demoniache tentazioni dell'erotismo (lo stesso Cùchulainn, cui è dedicata la maggior parte delle liriche, aveva inizialmente favorito l'azione dei nemici, trascurando la sua mansione di vigilante della frontiera perché fatalmente attratto da una ragazza con cui era corso ad appartarsi...). Ad accompagnare degnamente la poesia finissima, sublime dei testi, è un impasto musicale di rara bellezza ed intensità, che si snoda fra estese cavalcate e brevi intermezzi strumentali, lugubri e tristi momenti di "pausa" e danze scatenate al suono del violino. Su tutto il resto spicca la lunghissima, spettrale ballata "Faster Than The Hound": ritmo ipnotico e ascoltatore in trance, per quasi sei minuti che tolgono il respiro, per intensità e rigore interpretativi.
Rinuncio all'analisi di ciascun pezzo in rispetto della struttura concettuale dell'album, e invito sinceramente tutti voi a riscoprire questo gruppo così inopportunamente dimenticato. Cinque stelle a un pezzo pregiato come pochi, pietra miliare della musica contemporanea d'Irlanda.
Non ascolterete solo musica: fra i solchi di questo disco riposa l'eredità culturale di una nazione.
Carico i commenti... con calma