Per tutti quelli che sono ormai convinti che il termine gothic associato alla musica metal equivalga a pura spazzatura. Per tutti coloro che credono che la voce femminile sia il canone principale del genere. E per chi, avendo consolidato negli ultimi anni la propria conoscenza dei Lacuna Coil, non si è mai sforzato di scoprire l'underground metallico italiano che pullula di piccole gemme brillanti come questa: gli Hortus Animae, una band italiana proveniente da Rimini ed attiva dal lontano 1997, che ci propone un metal estremo e potente ma allo stesso tempo sinfonico ed aperto alla melodia con un tocco gotico onnipresente nelle atmosfere sempre ricercate.
Nel 2005 viene pubblicato "The blow of furious winds", il loro secondo album, che, a mio parere, è stato altamente ignorato (o, almeno, sottovalutato) da pubblico e critica. Per definire il loro sound potrei parlare di una (impossibile) versione progressiva ed ispirata degli ultimi Cradle Of Filth, che non necessita però di intere orchestre o di espedienti scenici per esprimere lirismo, sofferente passione e sentimenti morbosi. La voce di Martyr Lucifer (anche bassista) ci risparmia inoltre le sceneggiate dall'elevato tasso di ridicolezza che hanno reso famoso negli ultimi anni il nano inglese Dani Filth, alternando rabbiose voci gutturali ad un evocativo e dimesso cantato melodico. Che dire poi della strumentazione? Gli Hortus Animae danno sfoggia di indubbie abilità compositive e maestria tecnica sin dalla prima traccia "Furious winds - Locusts", ottimo mix iniziale di melodia e violenza.
"The mud and the blood - Funeral nation" ci mostra le grandi capacità della band nell'assemblare parti aggressive, stacchi atmosferici e melodie passionali costruite su splendidi assoli di chitarra e tappeti di pianoforte in nove minuti di pura emozione. Ascoltarla per la prima volta al calare delle tenebre ha causato in me la caduta di lacrime in quantità copiosa. Un inconfondibile tocco romantico è dato dall'inserto di violino e dai laceranti versi recitati alla fine della canzone, memori del periodo d'oro del gothic metal dalle tinte romantiche: quello dei Tristania e Theatre Of Tragedy, benché il combo nostrano, a differenza delle due band norvegesi, si concentri maggiormente su uno spettro di emozioni prettamente maschile. La donna (vista come demone incantatore, tipico cliché dell'immaginario gotico) è però il tema principale della quarta traccia "The virgin whore", leggermente più canonica rispetto al resto delle composizioni ma dotata di un ritornello veramente bello, dove le clean vocals si fanno leggermente più altisonanti. Il pianoforte è assoluto protagonista di "In adoration of the weeping skies" e va ad accompagnare inizialmente la recita di elegiache strofe, seguite dall'irrompere di un tagliente screaming e dell'ennesimo, meraviglioso, assolo di chitarra. La tensione accumulata sfocia in alcuni secondi di puro black metal, per poi lasciare di nuovo spazio alla voce narrante (stavolta rabbiosa) e ritrovare il piano ed un violino da lacrime (ricorda davvero il lavoro svolto da Pete Johannsen in "Widow's weeds" ed anche alcuni passaggi degli Haggard) nella parte finale. Nelle due tracce successive le tastiere tratteggiano timidamente scenari romantici e bucolici che si stagliano meravigliosi al di sopra dei muri di chitarra creati da Hypnos e Amon 418.
Vera protagonista di "Black Bible" è stavolta la voce, autrice di un growl veramente potente, poiché gli altri degli elementi del sound, che sapevano in precedenza rendere emozionanti alcuni passaggi piuttosto lunghi, forse qui non sono stati calibrati al meglio. Discorso a parte va fatto per il violino, ancora una volta degno di un passaggio da brividi. E poi arriva, come un fulmine a ciel sereno, l'ottava traccia "A gothic ghost - The dead of all beauty". Ed è il trionfo dell'atmosfera romantica e gotica che ci accarezzava, elegantemente, nelle canzoni precedenti. Impossibile trattenere le lacrime a quelle melodie violinistiche. Ho sentito il cuore sanguinare, e la stessa, indescrivibile emozione provata ascoltando quel capolavoro di musica gotica di cui sopra ho parlato si è fatta largo, con la stessa impulsiva forza, facendomi innamorare di questa canzone, che ci lascia con un dialogo recitato: il commovente addio tra due amanti. A metà strada tra "Velvet darkness they fear" (per la ricercatezza dei suoni di tastiera e la voce maschile nell'incipit del brano) e i primi Cradle Of Filth è, invece, la successiva "Garden of fairies".
Il disco termina con due bellissime cover. La prima, "The fairy feller's master-stroke / Nevermore" dei Queen, propone (soprattutto nella seconda parte più melodica) un'atmosfera leggermente in antitesi con i motivi crepuscolari delle altre canzoni, ma in definitiva è un episodio riuscito, nel quale è suggellata l'ennesima superba prestazione di Bless alle tastiere. Un ospite inatteso fa la propria comparsa nell'ultima traccia. Si, è proprio lei, la Venere del Gothic Metal: Liv Kristine. Non posso che esprimere la mia ammirazione per l'estro della cantante, che ha saputo prestare la propria voce per una grande realtà come quella dei Cradle Of Filth, ma che ha anche saputo impreziosire una piccola perla nascosta come quest'album, grazie ad una splendida rivisitazione in chiave metal di uno dei capolavori targati Dead Can Dance: "Summoning of the muse". Una nota di merito va anche alla bellissima copertina del disco, memore di capolavori friedrichiani e concepita in pieno stile romantico.
La forza intrinseca della musica degli Hortus Anime sta forse nella provenienza geografica degli stessi componenti e dalla volontà di demarcarla, senza andare ad emulare la band scandinava o americana di turno. Un modus operandi e un'emotività tipicamente italica sono infatti componenti che accomunano molte realtà underground del nostro paese. Chissà se, soltanto con le proprie mani, in futuro, bands come Domina Noctis, Mandragora Scream, Amethista, Edenshade, Dark Lunacy, Novembre e gli stessi Hortus Animae riusciranno a distogliere l'attenzione mondiale dagli osannati Lacuna Coil e Rhapsody facendosi notare maggiormente. Se, per una volta, anche i fruitori italiani di musica metal si privassero dei propri paraocchi, certe realtà godrebbero di maggiore risalto.
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