Immaginate una sorta di iperspazio cerebroide compresso e prossimo al collasso in cui l’improvvisazione musicale esiste in virtù della telepatia, in cui degli ideali circuiti elettrici che veicolano le più disparate emozioni sono teatro di un sovraccarico, quasi un rigurgito, di tessiture ritmiche dilatate e schitarrate pallidamente minimaliste e nervosamente disegnate. Immaginate che il futuro della musica abbia come punto di partenza la mera osservazione introspettiva.
Gli Hovercraft – Campbell2000, Sadie7 (sì! la signora Eddie Vedder) e Dash 11 - sono semplicemente il linguaggio o meglio il mezzo di comunicazione perfetto di un microcosmo differenziato e filosoficamente architettato che si estrinseca attraverso uno stato di continua tensione emotiva e fisica tra i tre componenti del gruppo, iperfocalizzandosi su una specifica, direi quasi scientifica, combinazione di toni, frequenze e pitches.
Immaginate insomma una sorta di campo gravitazionale in cui navigate voi descrivendo inconsapevoli una orbita bizzarra, che si risolve su altre infinite soluzioni di traiettoria, disegnandovi intorno angoscia e nichilismo rigidamente claustrofobico, che implode spigoloso e libera frammenti impazziti delle vostre meningi, che a loro volta diventano contorti protagonisti di altrettanto annientanti campi gravitazionali. E voi non potete far altro che fluttuare irrequieti e persi senza scampo nello spazio emozionale così concepito, sottile eppure così robusto, denso e concretamente pesante eppure così etereo e impalpabile.
Un marasma sonoro tagliente che non conosce soluzioni di continuità e che è sorretto da un’astrattezza deragliante tesa a creare una costante focale quasi disturbante a volte, ponti di connessione aurovisive sempre diverse, la cui unica prerogativa è alterare le aree cognitive critiche della percezione dell’ascoltatore/osservatore di fronte a questo microcosmo, spingendolo progressivamente verso uno stato vicino alla suggestione e all’ipnosi, ma senza i sopracitati intenti curativi (cfr mia precedente recensione su “Akathisia”)
Insomma un lavoro addirittura migliore del precedente, che affina i notevoli binari comunicativi espressi in “Akathisia” e ne da una dimensione e un significato chiaro, che in poche parole potremmo, anche se riduttivamente ed egoisticamente riassumere come neuronale, suggestivo e vorticosamente alienante - fino alla vostra inattesa perdita di identità - .
La sensazione alla fine di ogni ascolto è come di un risveglio da un incubo lancinante, con il cuore in gola, l’aria intorno che sa di piombo e il buio, che seppur non proprio vostro amico, ha molto più luce di quanta ne vedevate fino a qualche momento prima.
See Ya!
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