Chi era un ragazzo negli eighties, con o senza timberland, con o senza jeans da acqua in casa, non può non ricordarsi di questo folletto che ballonzolava tra tastiere, tastieroni, sintetizzatori ed altre diavolerie pre-computeristiche. Faceva canzoni di un pop intelligente, con una struttura piacevolissima all’ ascolto ed assolutamente non stupida nella composizione (una composizione, già allora era evidente, schiettamente pianistica, inteso come evidentemente non chitarristica). Era dalle parti di Joe Jackson, ma con una connotazione decisamente più commerciale, anche se allora, vi assicuro, la differenza tra due ballate come “No One Is To Blame”, e “Steppin’ Out” era molto, ma molto sottile: entrambe ben scritte, ben composte, intepretate da voci simili, ed entrambe supportate da una sezione ritmica fintissima ed elettronica, ma non per questo meno suggestiva. Almeno… : sicuramente piacevole per chi allora era un ragazzo, come lo ero io. Di sicuro i ragazzi dei tardi novanta troveranno piacevoli certe cose, tra vent’anni, che io ho giudicato e giudico scopiazzamenti insopportabili. Ma così, almeno a mio parere, negli ottanta non era: ancora si sperimentava qualcosa, ancora c’era chi amava sedersi a scrivere una canzone con qualcosa più di tre accordi e con un tema o un canto che non si limitassero tristemente a un ghirigoro sulla tonica. Allora ci son state le ultime avvisaglie della sperimentazione “leggera”, e Howard Jones ne era uno degli artefici, pur in un’apparenza “pop-leggera”. Insomma: poteva sembrare un pirla, ma non lo era.

Questo disco, invece, è del 2000. e, devo ammetterlo, se non fosse per il negozio di dischi della mia città che chiude e fa splendidamente i saldi, probabilmente non l’avrei comprato. Sbagliando. Nelle note di copertina si legge che il disco nasce da una domanda fatta ripetutamente nei diciotto mesi precedenti di tour: ovvero “dove posso comprare quello che ho sentito stasera?”. E noi non ci immaginiamo certo stadi o grossi teatri. Probabilmente la domanda veniva fatta in piccoli club, ed anche il disco è stato senz’altro concepito come prodotto ormai di nicchia. Effettivamente, mi fossi trovato ad uno di quei concerti, la domanda l’avrei fatta anch’io. Qui dentro ci sono le vecchie quattro glorie di Jones, quattro singoloni da commozione, per chiunque fosse là in quegli anni là, più altre dieci canzoni di cui, scusatemi, non so né provenienza né anno di composizione. Comunque, è tutta roba sua, e conferma che quell’autore e quell’inteprete avrebbero meritato di sopravvivere meglio ai tanto vituperati ottanta. Magari non come i Depeche Mode, senz’altro migliori (ma siamo poi sicuri?), ma almeno come i Simple Minds o i Simply Red o i Durans. Almeno un briciolo del supersuccessone della sopravvalutatissima Madonna, dai… Ma è così che va il mondo, si sa: due bei ritorni, come questo e quello dei Tears For Fears dell’anno scorso meritavano l’attenzione che una critica stanca e prezzolata ed un pubblico ormai privo del seppur minimo senso critico non hanno saputo tributargli.

Venendo al disco, da sottolineare soprattutto gli arrangiamenti, giustamente diversissimi da allora. Qui c’è una band, affiatatissima e capace. C’è un batterista favoloso, purtroppo mancato appena finite le registrazioni (davvero da favola, fidatevi… : ascoltandolo con attenzione si riconoscono tutte le scuole, rilette e interpretate con sapienza e infinita libidine), bassista e chitarrista all’altezza, e poi lui, Howard Jones, soprattutto agli organi, ma anche, ovviamente, al piano. Il tutto quasi privo dell’ultraelettronica che l’ha reso celebre nel mondo. Quel periodo lì, però, è finito, e lui se n’è accorto, producendo un disco di rara bellezza, raffinatezza e onestà. Tutto questo, però, se si ammette che il pop può essere bello, raffinato, e onesto. A mio parere una volta lo era, senz’altro.

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