La paura, una presenza ingombrante, sempre in attesa dietro l'angolo della coscienza, relegata dalle nostre speranze a confondersi con timori superstiziosi ed irrazionali, che scacciamo con sforzi della ragione o aggrappandoci ai crocifissi e ai simboli sacri. "Il sentimento più forte e più antico dell'animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell'ignoto", scriveva Lovecraft nel suo saggio su "L'Orrore Soprannaturale In Letteratura" (1927), e che dire allora se all'improvviso gli eventi della vita ci portassero a superare la normale concezione delle cose di cui dovremmo aver paura e ci si spalancassero davanti agli occhi panorami inimmaginabili che contraddicono e stravolgono l'ordine mentale con cui sino ad allora avevamo concepito l'universo?

E' questo quanto accade all'io narrante protagonista del magistrale capolavoro del "solitario" di Providence, un uomo di scienza che inizia la sua narrazione mettendo in guardia l'umanità dalla foga esploratrice che pare averla pervasa nei confronti del continente antartico, all'epoca (siamo nel 1931) ancora pressoché sconosciuto. Il discorso si dipana nella forma di una relazione scientifica, il vocabolario utilizzato è quello tecnico della geologia e della biologia, una scelta che strania il lettore al punto da fargli quasi credere di leggere di fatti realmente accaduti, perché non ci troviamo di fronte ad un banale racconto di mostri, vampiri, fantasmi o alieni, ma ad un capolavoro che traspone l'orrore in una dimensione cosmica: se in racconti come "Il Richiamo Di Cthulhu", "L'Orrore Di Dunwich" e "Colui Che Sussurrava Nelle Tenebre" i malcapitati protagonisti venivano in contatto quasi incidentalmente con entità aliene, maligne ed inconcepibili, sfuggendo loro in modi che lasciavano il dubbio di aver solo immaginato, o allontanandone la minaccia quanto meno per gli anni sufficienti a sentirsi al sicuro dalle loro aggressioni e ritardandone i piani di irruzione nel nostro mondo (nessuna vittoria può essere definitiva, perché "non è morto ciò che in eterno può attendere, e con il passare di strane ere anche la morte può morire"), ora i membri della spedizione dell'Arkham University sono costretti ad inoltrarsi in un territorio infido e misterioso ben oltre gli apparenti pericoli del gelido deserto polare, sino alla inquietante scoperta di fossili di esseri ancora non classificati e della ciclopica città eretta da mani dimenticate che altro non possono essere che quelle dei mitici Grandi Antichi menzionati nell'oscuro "Necronomicon".

Come in un sogno, il muro delle ere geologiche è abbattuto e i protagonisti si ritrovano a girovagare in questa megalopoli dalle dimensioni extraumane, di cui l'autore cura la descrizione nei minimi dettagli, persino nei fregi degli edifici che permettono di ricostruire la storia di vicende legate ad eoni inconcepibili, a età talmente lontane che la vita non si era ancora evoluta dal brodo primordiale. Le prove di ciò sono ovunque, tutto intorno a loro, insieme al senso di una minaccia oscura e latente che porta il nome di Shoggoth, e la ricerca di alcuni compagni di spedizione dispersi li porterà ad avventurarsi incautamente nei livelli sotterranei delle rovine della città, sempre più giù, verso l'abisso, dove troveranno... la follia. O meglio, la rivelazione finale, che equivale al rompersi definitivo nella mente degli scienziati di un equilibrio, alla rinuncia ad alcuni parametri di valutazione di ciò che chiamiamo realtà, sino addirittura al rifiuto della conoscenza, su cui si basa il cammino del progresso tecnico e spirituale dell'umanità.

Permane, come ne "Il Richiamo Di Cthulhu" (e anzi qui sviluppata e portata alle estreme conseguenze), la convinzione che l'approfondirsi della conoscenza scientifica non possa che portare l'uomo all'esperienza diretta dell'orrore dell'ordinamento spaventoso di un universo impersonale e caotico, tanto da risultare per noi spaventosamente, intollerabilmente malvagio, e nel quale l'uomo non può trovare posto, se non con la straziante consapevolezza che la comparsa della razza umana può essere equiparata ad un irrilevante incidente di percorso, un nulla, oppure cercando rifugio in una rassicurante ignoranza che ci riporterebbe indietro ad un nuovo medioevo. Da qui anche il toccante paragrafo in cui il protagonista, di fronte a questa Apocalisse (nel senso di rivelazione, di svelamento), riesce a sentire una certa affinità persino con le creature chiamate Grandi Antichi: dei? Creatori della vita sulla Terra? Alieni? No, li definisce "Uomini", grandissimi eppure indifesi come noi di fronte all'infinito e cieco universo e ai suoi abitatori più imperscrutabili.

Le incredibili rivelazioni, l'inconcepibile e insopportabile orrore finale, la gelida e raggelante atmosfera delle nevi antartiche rendono questo breve romanzo, snobbato dalla stampa dell'epoca, un capitolo imprescindibile della produzione e dell'universo lovecraftiani. Se ne "Le Avventure Di Gordon Pym" di Poe, dichiarata fonte di ispirazione (tematica, ovviamente) di questo racconto (citata oltretutto nell'enigmatico verso "Tekeli-li! Tekeli-li!"), il protagonista termina la narrazione poco prima della rivelazione finale, risparmiando al lettore la verità e al tempo stesso accendendo la sua fantasia spingendolo a fare ipotesi, qui invece l'autore trascina chi legge in un mondo di cui non risparmia alcun dettaglio, svelando rovine e paesaggi alieni non intuiti in qualche remoto recesso del nero universo lontano da noi, ma siti materialmente appena dietro l'angolo.

L'assedio delle abissalmente malevole (o abissalmente indifferenti, chissà) entità cosmiche che accerchiano il nostro ignaro e tranquillo mondo si stringe...

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