La storia del rock sarebbe stata di sicuro migliore, se alcune band avessero gettato la spugna per tempo, evitando lunghe e un po' penose "agonie" o inopinati ricongiungimenti. Ma quanti sono i gruppi, invece, che possono dire di essersi sciolti all'apice, nella fase del picco creativo, dopo l'uscita del loro più riuscito lavoro? Si possono contare sulle dita di una mano. Gli Hüsker Dü ("ti ricordi?" in svedese) da Minneapolis rientrano di sicuro nella cinquina. Infatti, dopo la pubblicazione nel 1987 di questo monumentale "Warehouse: Songs And Stories", il trio, formato da Bob Mould, Greg Norton e Grant Hart, dopo violenti litigi causati anche da gravi problemi di droga soprattutto da parte del batterista e coautore Hart, decise di mettere la parola fine alla storia di un gruppo la cui influenza e rilevanza crescono quanto più ci si allontana da quel fatidico anno.

Dopo un periodo di circa sei anni da indipendenti, caratterizzato da un hardcore abrasivo, crudo, velocissimo, che mette ancora oggi a dura prova l'impianto hi-fi, sintetizzato magistralmente da lavori come il doppio "Zen Arcade", la band progressivamente si avvicina ad un suono, sempre potente ed energetico, ma più incline alla melodia. Con "Warehouse", il secondo titolo dopo "Candle Apple Grey" pubblicato per la major Warner, questa "fusione fredda" tra pop e punk riesce in modo forse irripetibile.
Il suono "chitarrabassobatteria" dei nostri ha pochi eguali in quanto a potenza e pienezza. E' davvero difficile credere che a suonare quei venti brani, quasi tutti adrenalici e intorno ai tre minuti, siano solo in tre. Un vero e proprio muro sonoro si troverà davanti il fortunato che ancora non li conosce. Ma dietro quella spessa e luccicante corazza, che già da sola vale l'acquisto, scoprirà delle sottili quanto solide e godibili melodie, che si intrecciano e si confondono con quei riff duri e spigolosi, dando vita ad un impasto che riesce a far perfettamente coesistere le caratteristiche migliori dei due generi, di solito considerati agli antipodi.

Da questa materia incandescente, raffreddata in modo sapiente, i nostri, mostrando di possedere insieme le doti degli antichi fabbri e dei maestri di Murano, creano delle songs memorabili, a cui non mancano neanche dei testi intelligenti (le "Stories" del titolo) che mescolano un certo spleen, impegno ed ironia.
E' difficile scegliere tra quei venti brani: l'indecisione regna sovrana, come quando si è davanti ad una ricca scatola di cioccolatini. Forse andrebbero citate, senza per questo far torto alle altre, almeno l'apertura al fulmicotone di "These Important Years", la betleasiana, al triplo della velocità naturalmente, "Ice Cold Ice", il pugno di ferro in guanto di velluto di "It's Not Peculiar", il rock 'n' roll ironico e scanzonato di "Actual Condition" ("Well the actual condition of my mind / Is elusive as the answers that I find / I keep going through transition / From doubt to indecision / It's the actual condition of my mind"), l'ottimismo della volontà di "No Reservations".

Dal "Magazzino" degli Hüsker Dü sono in tanti, anche in tempi recenti, ad aver portato via qualcosa, alcuni senza neanche ringraziare. Ma pochi quelli che hanno, anche solo avvicinato, i loro sfavillanti risultati.

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